Pubblichiamo la trascrizione della presentazione del volume “Storie di diritti e di democrazia – La Corte costituzionale nella società” (Feltrinelli, 2023), di Giuliano Amato, Presidente emerito della Corte costituzionale, e Donatella Stasio, già Capo dell’Ufficio comunicazione e stampa della Corte, che si è tenuta lo scorso dicembre. Il video completo dell’incontro è disponibile a questo indirizzo sul nostro canale YouTube.
[A. Fricano] Dall’analisi del volume emerge in più occasioni il tema del viaggio: penso al viaggio nelle scuole ma soprattutto al viaggio nelle carceri. Domando, pertanto, alla dottoressa Stasio: in che modo è cambiata nel corso di questi anni la capacità della Corte costituzionale di aprirsi all’esterno ed in particolare alle periferie umane e culturali del nostro paese?
[D. Stasio] Attraverso il cambiamento che si è verificato nei cinque anni che sono raccontati in questo libro – e sono i cinque anni che il Presidente Amato ed io abbiamo condiviso alla Corte costituzionale, ovviamente in ruoli e con responsabilità diverse – raccontiamo l’apertura della Corte alla società. È anche l’occasione, lo strumento, l’espediente per raccontare la democrazia, i diritti e la Costituzione.
Come ho avuto modo di scrivere in altre occasioni, la Corte ha sempre aperto fin dalla nascita un canale di comunicazione con la società, lo ha fatto in maniera alterna nel corso dei suoi sessantadue anni.
Cos’è successo invece dal 2017 al 2022? Naturalmente noi raccontiamo questi anni perché sono quelli che abbiamo vissuto direttamente e quindi ne siamo anche testimoni. È maturata una consapevolezza del dovere di comunicare, di parlare non alla società ma con la società: cioè un rapporto, un’interlocuzione vera e propria, uno scambio. Ed infatti così è stato nei viaggi che si sono susseguiti, uno scambio di conoscenze, uno scambio di esperienze e di emozioni che non sono secondarie in questo lustro e che sono anche un po’ il valore aggiunto della comunicazione della Corte di quegli anni.
Perché comunicare? Comunicare con queste modalità, che sono poi le modalità che dal nostro punto di vista qualificano un’istituzione di garanzia in una democrazia costituzionale, risponde ad una serie di esigenze.
Sicuramente quella di farsi conoscere: la Corte costituzionale, il più alto organo di garanzia della Repubblica, un potere incisivo e profondo nella vita delle persone, delle istituzioni e del paese. A fronte di questo potere naturalmente dovrebbe essere conosciuta come lo sono altre corti supreme al mondo (la Corte suprema americana, la Corte suprema israeliana e tante altre), che sono vissute come la coscienza costituzionale dei rispettivi paesi. Da noi, invece, la Corte costituzionale è sostanzialmente una sconosciuta: quando arrivai alla Corte scoprimmo che solo il 15% degli italiani sapeva che esistesse e che cosa facesse.
Altra esigenza è quella di rendere conto, un dovere di accountability e di trasparenza nei confronti dei cittadini e del proprio operato in virtù di questo potere così penetrante nella vita delle persone. Far conoscere le proprie decisioni, spiegarle, farle comprendere, perché attraverso la comprensione e la conoscenza si acquisisce anche la consapevolezza dei propri diritti.
La comunicazione risponde, però, anche ad un’altra esigenza, che è quella di conoscere, venuta fuori in maniera chiara soprattutto con il viaggio nelle carceri. La Corte non ha avuto nessuna esitazione nel dire anche pubblicamente che c’era questa esigenza di conoscenza diretta, cioè di una Corte, come diceva Sandulli, “carne e sangue del corpo sociale”, quindi calata realmente nella società. Per calarsi nella società non basta andare ai convegni, o anche nelle stesse scuole e nelle stesse carceri, a fare una bella lezione e poi andarsene. No, bisogna proprio entrare dentro. Questo ha fatto la Corte per conoscere meglio la realtà e questo ha significato anche un arricchimento della propria giurisprudenza, perché c’è stato un ritorno anche nella propria giurisprudenza.
Infine, un’altra esigenza è stata quella di promuovere la cultura costituzionale, di – uso le parole di Paolo Grossi che ha dato il là a questa nuova fase della comunicazione della Corte – “contribuire a costruire una mentalità costituzionale”. Qualcosa di più e di meglio della semplice cultura (che già sarebbe tantissimo) o del sentimento costituzionale, perché è un modo di essere, di vivere, di proiettare i valori e principi costituzionali e di metterli in pratica. Un impegno, quest’ultimo, che la Corte ha ritenuto di fare insieme ad altre corti costituzionali europee e del mondo in considerazione non solo di un diffuso analfabetismo costituzionale ma anche – proprio perché si vive dentro la società e non nella torre di avorio chiusi per cui si è distanti da tutto – di quei venti che soffiavano e che soffiano ancora nel mondo e in Europa che hanno portato a degli arretramenti delle democrazie costituzionali proprio attraverso, principalmente e come primo passo, gli attacchi alle corti costituzionali. Quindi, questa esigenza di promuovere la cultura costituzionale, ancora una volta, per acquisire la consapevolezza dei propri diritti e passare da argine alle regressioni democratiche.
[A. Mazzola] «Tra il 2017 e il 2022 accade qualcosa di nuovo nel palazzo della Consulta, dove dal 1956 ha sede la Corte costituzionale, il più alto organo di garanzia della Repubblica, la “viva voce” della Costituzione e dei nostri diritti, l’arbitro dei conflitti tra poteri dello Stato, lo “scudo” in difesa del pluralismo e delle minoranze»: inizia così il volume Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società.
La novità che interessa il palazzo della Consulta nel lustro analizzato è quella del viaggio, nelle carceri, nelle scuole, tra i cittadini attraverso i podcast. L’obiettivo di questi viaggi, fisici e virtuali, è, fra l’altro, quello di far uscire la Corte costituzionale dalla propria “torre d’avorio”, posto che, a differenza del Capo dello Stato, essa è «semisconosciuta». E tuttavia il Giudice costituzionale è ben presente, vicino alla comunità, pronunciandosi non di rado su questioni che possono interessare ogni consociato (il suicidio assistito, l’ergastolo ostativo, i rapporti di filiazione, la democrazia diretta).
L’obiettivo del volume è, dunque, far sentire ai cittadini che entrambi gli organi di garanzia sono vicini alla comunità, che essi rappresentano «l’antidoto migliore contro le regressioni democratiche» (che stanno interessando, e non di rado, anche Paesi a noi vicini).
D’altro canto, come sostengono diversi costituzionalisti (sia sufficiente richiamare Roberto Romboli; Paolo Carnevale; Marco Ruotolo; Nicolò Zanon; Roberto Pinardi; Michele Massa; Federica Mannella) sorge naturale domandarsi se la Corte, nel dismettere in qualche modo i panni di un’istituzione – in modo assolutamente metaforico – “conservatrice”, non rischia di scivolare nell’agone politico.
[G. Amato] Mi dico convinto del contrario; il rischio di scivolamento è visto da coloro che hanno della democrazia una nozione “zoppa”, ignorando ogni possibile implicazione di ciò che una Costituzione fondata sulla sovranità popolare e nella quale la giustizia è amministrata in nome del popolo comporta per tutti gli organi che adottano decisioni pubbliche con effetto sulla collettività, oltre che su singoli cittadini.
A tal proposito rimando alla nozione di “responsabilità diffusa” teorizzata da Giuseppe Ugo Rescigno, contrapposta alla “responsabilità istituzionale”, indicando con la prima la responsabilità che grava nei confronti di ogni consociato, a prescindere dal fatto che abbia concorso all’investitura del potere istituzionale di cui il soggetto dispone. Ciò non toglie che anche gli organi giurisdizionali – soggetti soltanto alla legge e privi della possibilità di adottare decisioni sulla base delle proprie personali preferenze, proprio poiché decidono solo in base alla legge – sono sottoposti al giudizio dei cittadini, i quali dunque devono essere posti nelle condizioni di poter comprendere quali sono le parole della legge e della sentenza.
Da qui discendono due conseguenze: da un lato, che anche le decisioni di questi organi imparziali e lontani dall’agone politico devono essere percepite attraverso un linguaggio comune; d’altro lato, che devono essere divulgate e rese note attraverso strumenti comunicativi che ne rendono fruibili i contenuti e le ragioni, poiché ciò è sinonimo di democrazia.
[A. Fricano] Approfittando della consueta generosità del suo magistero, rivolgo al presidente Amato una domanda su una questione che – seppur non trattata esplicitamente nel volume – è emersa con vigore tanto nel dibattito scientifico tanto in quello pubblico degli ultimi anni, ovvero la formalizzazione dell’opinione dissenziente del giudice che non ha condiviso l’orientamento della maggioranza del collegio.
Da Presidente emerito della Corte costituzionale, Lei ritiene che il nostro ordinamento sia sufficientemente maturo per l’introduzione della dissenting opinion?
[G. Amato] Che sia sufficientemente maturo non lo metto assolutamente in dubbio, anzi, io già lo pensavo negli anni sessanta quando – di ritorno dal mio anno di studi alla Colombia University (1962-1963) per un Master in comparative law, tutto vissuto attraverso sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti e quindi con la lettura delle opinioni della maggioranza e delle frequenti dissenting opinion – ero convinto dell’utilità della dialettica che si coglieva in queste opinioni diverse, che anche le pubblicazioni ufficiali naturalmente contenevano. […] Questo sta scritto fin da quegli anni e questo scrivemmo in un libretto coordinato da Costantino Mortati, del 1964 credo, proprio sulla dissenting opinion [C. Mortati (cur.), Le opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali ed internazionali, Giuffrè, 1964], intesa quindi come un incoraggiamento alla giurisprudenza futura affinché trovi già negli umori della Corte costituzionale anche taluni accenti che possano incoraggiare a risollevare questioni già decise.
Naturalmente nel nostro ordinamento questa finalità de futuro vale solo per le questioni inizialmente dichiarate infondate perché da noi, se la questione è fondata, la legge è cancellata dai libri e quindi non è più riproponibile nessuna questione a riguardo; negli Stati Uniti, invece, può accadere anche il rovesciamento di una sentenza favorevole all’invalidità, ma non entriamo in questo.
Si diceva: “l’Italia non è matura, se c’è una divisione allora vuol dire che si fa politica”; in realtà, questo non è vero. Allora la democrazia era più giovane, non eravamo ancora abituati a tutte le implicazioni della legittimazione dal basso delle istituzioni, ancora nessuno aveva parlato della responsabilità diffusa. Si diceva che l’Italia fosse una democrazia nascente, all’interno della quale anche la Corte costituzionale era un’istituzione nascente, per cui bisognava “andarci piano”, al punto tale che non se n’è più parlato.
Il tema me lo sono ritrovato davanti una volta che ero alla Corte e vi dirò che, vedendo a lavoro la Corte e avendo conosciuto un giudice di un altro paese che diventò molto mio amico nonostante la diversità di idee e che era una “macchina produttrice” di dissenting opinion – Antonin Scalia, giudice famoso della Corte suprema americana – ho cominciato ad avere dei dubbi sulla mia fede nella dissenting opinion.
Ho visto, attraverso il lavoro della Corte, che il fatto di non disporne predispone ciascuno dei quindici giudici a cercare di influire il più possibile sulla decisione che verrà presa anche chi, magari, percepisce di trovarsi in una posizione meno condivisa di altre e, tuttavia, per farla valere ha un unico modo, quella comunque di lasciare una traccia o una inclinazione nella decisione che verrà adottata. Se tu hai come unico sbocco “la decisione”, perché non c’è altro, ti sforzi di lasciare un’impronta sulla medesima; questo ho imparato dal mio lavoro.
Dalle predisposizioni naturali del mio amico Scalia – e anche dei racconti che mi faceva – ho capito che dove c’è la dissenting opinion, [io giudice], appena vedo che c’è una maggioranza che la pensa diversamente da me, lungi dal cercare di influire sulla decisione, mi tengo alla larga perché così avrò la tribuna, il posto d’onore della dissenting opinion su quella decisione, così la mia immagine personale e il mio protagonismo sulla scena ne guadagneranno moltissimo in effetti. Questo mi ha molto raffreddato, vi dirò; darei una risposta sciocca conclusivamente, insomma, del tipo “non lo so”.
Dentro di me pesano gli argomenti con cui ero da giovane orientato in quel senso, ma anche i contro-argomenti che spesso vengono ignorati dalla facilità con cui la dissenting opinion può reclamizzare sé stessa come uno strumento utile. Rifletteteci e poi decidete come ritenete più giusto.
[A. Mazzola] Lorenza Carlassare, fra gli altri, ha rilevato che i comunicati stampa della Corte costituzionali possono assolvere diverse funzioni (“normativa”, come è stato per quello relativo alla pronuncia sul fine vita o sul doppio cognome; “notiziale”, ad esempio in caso di spiegazione delle dichiarazioni di inammissibilità del referendum), che tuttavia sono legate dall’obiettivo di rendere edotta la società civile delle decisioni del Giudice costituzionale. Ciò probabilmente perché la consuetudine per la quale “la Corte parla solo attraverso le sue decisioni” ha determinato una fattiva esclusione di coloro che non sono giuristi, mentre attraverso i comunicati è stato sostenuto (Maria Cristina Grisolia) che la Corte filtri e trasmetta alla comunità le informazioni più utili e rispondenti ai propri fini istituzionali, anche per evitare che i mediadecidano cosa e come comunicare all’opinione pubblica.
Il numero sempre più crescente di comunicati lascia intendere l’esigenza della Corte di dialogare con la società civile o, più correttamente, di confermare la legittimazione dell’istituzione, sottolineando la persistente attualità della Costituzione e dimostrando che essa è ancora in grado di dare risposta soprattutto alle questioni sociali che emergono nel tempo presente.
Da qui, una suggestione: se l’anticipazione del deposito della sentenza attraverso i comunicati stampa non rischia di vincolare il Giudice costituzionale nella stesura della motivazione (Elena Malfatti), ovvero se tale preavviso non rischia anche di anticipare l’effetto di tale pronuncia (il riferimento è, in particolare, al comunicato stampa sul cognome materno, il cui contenuto ha finito per essere utilizzato prima che la sentenza venisse pubblicata da parte del Tribunale di Pesaro).
[D. Stasio] Un comunicato è un comunicato, non è una sentenza, non è una decisione. Se ne può tener conto nei limiti in cui rientra in un discorso di collaborazione istituzionale. I comunicati c.d. anticipatori sono stati imposti dall’esperienza a causa delle continue indiscrezioni, che spesso rischiano di anticipare in maniera scorretta e strumentale – anche in funzione di pressione indiretta sulla Corte – l’organo stesso nel momento della stesura della sentenza. Tale situazione dà vita a un circolo vizioso, perché quando esce l’indiscrezione si attiva un dibattito politico (e anche giuridico) che rischia soprattutto di delegittimare l’istituzione.
Va peraltro segnalato che sono stati i giornalisti, tempo fa, a chiedere alla Corte costituzionale di adottare i comunicati anticipatori, anche in considerazione del fatto che la loro assenza dava luogo spesso a una disuguaglianza tra le testate che avevano informatori, e che perciò rischiavano a pubblicare alcuni articoli sulla Corte, e quelle che non l’avevano. Il che è una chiara attuazione del principio di eguaglianza sostanziale.
Infine, ritengo importante ricordare che i comunicati stampa non vincolano la Consulta rispetto alla stesura della sentenza, tanto è vero che il collegio è sempre stato molto attento ad anticipare ciò che si può anticipare senza “legarsi le mani”rispetto alla stesura della motivazione.
[A. Fricano] Si è a lungo parlato del ruolo anticipatore della Corte costituzionale nell’interpretare un idem sentire de re publica. Qual è stato e qual è tuttora, secondo Lei, l’impatto sociale, prima ancora che giuridico, della sentenza n. 131 del 2022 sull’attribuzione del cognome materno?
[G. Amato] Guardi, io penso che avesse ragione la Corte quando, già nel 2006, affrontando allora per la seconda volta il problema, attribuì l’esclusivismo del cognome paterno ai tratti tipici di un ordinamento patriarcale risalente nei secoli.
È proprio difficile da capire, una volta accettato, che l’uguaglianza dei coniugi non è – come scriveva il Costituente – nei limiti dell’unità familiare ma è costitutiva dell’unità familiare. A questa interpretazione evolutiva l’articolo 29 è stato costretto, in realtà, dal prorompere inesorabile delle implicazioni dell’eguaglianza, che non poteva essere messa a tacere nel momento del dissenso, perché “nei limiti dell’unità familiare” voleva dire questo all’origine. […]
Allora, una volta che l’uguaglianza ha imposto sé stessa e che l’unità familiare si fa attraverso l’uguaglianza, il fatto che a priori il cognome dei figli sia il cognome dei padri riflette due esigenze: quella del maschio, che è il pater familias, e quella delle famiglie abbienti, il cui patrimonio deve essere intestato sempre allo stesso cognome per favorire così anche l’affidamento dei terzi. E invece no, perché tutto ciò che attiene alla famiglia, e quindi al nome dei figli e all’identità stessa dei figli, fa capo ad entrambi i coniugi. Deve, quindi, essere una decisone loro quella che sceglie uno dei due cognomi e se c’è disaccordo fra di loro non prevale il maschio ma ci sono entrambi i cognomi.
Ma quanti lo fanno? E qui subito è venuto fuori l’argomento per cui “da quando c’è questa previsione sono pochissime le richieste; in Germania, dove questa cosa c’è, sono poco più del 5%”. Quindi i diritti si pesano a quantità? L’esistenza di un diritto può essere cancellata se non è fatta propria dalla maggioranza dei cittadini? Beh, la risposta di chiunque abbia a cuore i diritti umani è: “arrivederci e grazie, voi non sapete come funzioni un sistema fondato appunto sui principi”.
L’impatto non è stato aiutato neanche dal Parlamento, che poi non ha fatto neppure quelle misere cose in più che gli erano state chieste, cioè stabilire cosa succede ai figli quando poi si sposano, perché lì può finire che i figli dei figli si ritrovino con otto cognomi; quindi bisogna stabilire delle regole per mantenere sempre i cognomi entro certi limiti. Neanche questo è stato fatto.
Questo ha anche un po’ ridotto l’impatto, perché le famiglie che si preoccupano di questa conseguenza non sanno come sarà gestita; però, devo dire, questo non è rilevante. Il numero di coloro che hanno aderito non è decisivo per valutare l’importanza del principio.
[A. Mazzola] Nel volume ricorre il tema del rapporto tra Corte costituzionale e Parlamento a seguito dell’introduzione della c.d. tecnica decisoria a due tempi, nonché dei forti moniti che l’organo di garanzia invia a quello politico, come si è verificato la c.d. sentenza sul doppio cognome. Quale tipo di relazione dovrebbe instaurarsi tra questi soggetti istituzionali a seguito del dialogo che pare avviare il Giudice costituzionale?
[D. Stasio] La sentenza sul doppio cognome è importante per gli effetti che produce rispetto al macro-tema della violenza sulle donne; è una sentenza che educa, perché l’attribuzione del cognome è un momento fondamentale in cui si esercita un rispetto reciproco fra i genitori, in cui l’uguaglianza e la parità sono messi alla prova. Il fatto che il legislatore non capisca [la necessità di] completare questa riforma, rendendola fruibile nel suo significato più profondo, dice molto rispetto al modo in cui tale organo non solo viene meno al rispetto dell’obbligo di collaborazione istituzionale, ma in qualche modo è incoerente rispetto ad alcuni obiettivi che dichiara di voler perseguire e le azioni concrete. Il Parlamento ha fatto pressioni al Giudice costituzionale affinché non si pronunciasse sul caso Cappato perché sembrava che la legge fosse pronta per essere approvata e, in realtà, non c’è mai stata.
[G. Amato] Va anche rilevato che l’organo titolare del potere legislativo si è spesso trovato in difficoltà a decidere sulle questioni di valori più che su quelle economiche, perché decidere sulle prime è difficile. Non si può dare ragione a entrambi i punti di vista, soprattutto se si presentano radicalizzati e intransigenti. Una delle ragioni di debolezza delle democrazie contemporanee è che hanno perso gli aggregatori di identità collettive, le aggregazioni odierne avvengono sugli estremismi e non sono formazioni sociali, tendono a polarizzare opinioni. Queste diversità arrivano in Parlamento e si paralizzano sulle proprie barricate, rendendo di fatto impossibile procedere al dialogo politico e rendendo altrettanto, di fatto, necessario che sia uno degli organi di garanzia ad attivarsi per soddisfare in qualche modo le posizioni giuridiche soggettive. Per evitare una sorta di commistione tra i due poteri, sarebbe buona cosa proceduralizzare i rapporti tra l’una e l’altro in modo tale da favorire la collaborazione istituzionale.
[G. Giorgini Pignatiello] Penso che essere contrari alla svolta comunicativa della Corte sia oggi un po’ antistorico, sia per il contesto digitale in cui avviene l’informazione, sia per quello che è il dato comparato, per cui quasi tutte le Corti del mondo comunicano nei modi più disparati.
Il libro pare concentrarsi molto sui singoli individui, esplicitando, nelle diverse occasioni, chi era favorevole e chi era contrario ad una determinata iniziativa. Mi chiedo, quindi, se il cambiamento nella comunicazione della Corte sia espressione di una felice contingenza storica – e dunque mutando la sensibilità dei Giudici che verranno potrà regredire anche la capacità comunicativa della Corte – oppure se si tratta di un passo strutturale, rispetto al quale non si tornerà indietro. Ritenete che potrebbe essere opportuno regolamentare la comunicazione della Corte per cristallizzare alcuni principi irrinunciabili? Domando altresì se questo volume costituisce, in qualche modo, una risposta al libro del Professor Cassese (S. Cassese, Dentro la Corte. Diario di un giudice costituzionale, Bologna, Il Mulino, 2015).
[D. Stasio] No, non è un diario; se fosse stato un diario, molto altro sarebbe stato raccontato. Non ha niente a che spartire con quel filone, per così dire letterario.
[G. Amato] In quel caso l’autore dà giudizi personali, sia pure mimetizzati.
[D. Stasio] Ovvio che l’umanità [nel nostro volume] viene fuori e deve venir fuori, perché i giudici costituzionali non sono degli automi. Sono delle persone in carne ed ossa, quindi anche raccontarli come sono è una cosa importante. Raccontare come si sono mossi all’interno di questo cambiamento, che non è stato facile, perché anche maneggiare le nuove tecnologie comunicative non è una cosa facile, né per i giovani, figuriamoci per le persone di una certa età. Da questo punto di vista, tenderei proprio ad escludere qualunque tipo di collegamento con altre pubblicazioni di questo tipo.
Sulla regolamentazione della comunicazione, non so se sia giusto o meno farlo. È chiaro che gli uomini e le donne cambiano, cambiano i contesti politico-istituzionali, cambiano tante cose, quindi può cambiare anche la comunicazione. Sicuramente quello che posso dire, e lo dico da persona che ha lavorato al fianco di questa Corte e che ancora adesso in qualche modo ha dei riscontri, è che è stata una Corte per certi aspetti straordinaria. Per me, che pure dal 1984 seguo la Corte costituzionale, ha avuto una capacità di apertura, un coraggio e una capacità di mettersi in discussione e di rischiare – perché quando si cambia, si rischia – che potesse non funzionare. Invece ha funzionato e allora questo dovrebbe servire, come noi scriviamo nel libro, ad aprire una strada, che ha dato dei frutti positivi e tanto dovrebbe bastare per provare a seguirla.
[G. Amato] Le singole personalità contano, ma le personalità cambiano. La sorpresa che si ha, per chi conosce i vecchi Maestri, leggendo questo libro, è la sorpresa di Paolo Grossi: Paolo folgorato sulla via di Damasco, Paolo folgorato sulla via di Afragola, nel senso che davanti agli studenti di Afragola lui ha una reazione anche emotiva. Si apre un canale comunicativo, di cui prima ignorava l’esistenza, tant’è che aveva un papiello già scritto, precotto, da leggere.
Vede gli studenti in faccia, vede i loro occhi, vede le aspettative che hanno, butta il papiello e si lancia, finché addirittura si abbracciano. C’è una scoperta dell’altro, che avviene all’insegna della più perfetta attuazione dell’articolo 2 della Costituzione che non era prevedibile prima. Magari qualcuno ora può ritenere che l’alta intensità che ha avuto la comunicazione nei nostri anni meriti un qualche abbassamento, ma poi c’è un incontro che può rideterminare in chiunque il bisogno [di comunicare]. Devo dire che la comunicazione, intesa come rendere noto il perché della sentenza, il parlarne, il farci l’intervista alla conferenza stampa, da parte del Presidente, del Relatore, ecc., è un tema che mi aspetto venga discusso dalla Corte attuale e trovi una qualche forma di regolamentazione, naturalmente interna. Farà una Corte successiva l’impresario teatrale, come abbiamo fatto noi organizzando un concerto in Piazza del Quirinale sullo stato di diritto, sul diritto che prende il posto del sangue? Ecco, dipende anche questo, perché se la Corte è viva, se la Corte è attiva, allora arriva un Nicola Piovani, che anziché proporlo alla Scala di Milano, viene a proporlo alla Consulta e dice facciamo questa cosa. Questo è accaduto, perché non è che noi abbiamo deciso di fare gli impresari teatrali, ma la nostra visibilità esterna ha indotto il Maestro a venire da noi. Insomma, tutto può essere. Non vi scoraggiate. Siete ancora giovani.
[G. Donato] Qualche riflessione conclusiva. Credo che la svolta comunicativa della Corte discussa in questa sede non debba più essere interpretata come un’appendice rispetto al lavoro della Corte, per cui la Corte opera come giudice costituzionale e in più – solo per la fortunata presenza di un certo capo della comunicazione – pubblica anche dei comunicati. Una Corte che vuole vivere dentro la società del 2023, all’interno della sua attività del rendere giustizia costituzionale (per dirla come il Presidente emerito Silvestri in un saggio breve ma assai pregnante) non può più permettersi di omettere questo profilo. Sembra, quindi, oltremodo condivisibile l’auspicio che emerge nella direzione di una regolamentazione della comunicazione della Corte.
Il sottofondo dell’idea del viaggio nella Corte e della Corte, che accompagna tutto il libro come ha accompagnato il presente incontro, e, al contempo, quella breve raffigurazione personale dei vari Presidenti inserita nella parte introduttiva del libro fanno avvicinare la Corte ai cittadini, così come la Corte entra, da sempre, nelle vite di ciascuno di noi attraverso le sue decisioni.
Alessandro Fricano
Comitato direttivo di Voci Costituzionali
Dottorando di ricerca – Università del Molise
Alessandra Mazzola
Comitato di redazione di Voci Costituzionali
Dottoranda di ricerca – Università di Napoli “Parthenope”
Giacomo Giorgini Pignatiello
Comitato di redazione di Voci Costituzionali
Assegnista di ricerca – l’Università di Napoli L’Orientale
Giuseppe Donato
Direttore di Voci Costituzionali
Ricercatore in Istituzioni di Diritto pubblico – Università di Messina
