
Com’è noto, il 12 giugno 2022 saremo chiamati a votare sui cinque quesiti referendari in materia di giustizia promossi da Lega e Radicali.
Considerato che ad oggi soltanto un elettore su tre dichiara di aver compreso l’oggetto del referendum, la sfida più ardua pare legata all’affluenza, dal momento che le forze politiche sembrano concentrate, da un lato, sulla campagna elettorale per le elezioni amministrative fissate per il medesimo giorno e, dall’altro, sulla guerra in Ucraina e sui conseguenti contraccolpi a livello economico e sociale.
All’approssimarsi del voto, da più parti è stato sollevato il dubbio se sia opportuno proporre quesiti referendari su temi così tecnici. Anzitutto – ammesso che sia possibile distinguere i quesiti referendari in base al grado tecnico della materia– occorre rilevare che anche in molte tornate referendarie del passato sono state sottoposte al corpo elettorale questioni ad elevato contenuto tecnico, in alcune circostanze proprio in materia di giustizia (come nel 1987): tuttavia, accanto a quesiti di questo tipo, ve n’erano altri di grande impatto sull’opinione pubblica, come nel caso della produzione di energia nucleare oggetto del medesimo referendum appena citato.
Occorre sottolineare che nel caso dei referendum sulla giustizia erano state raccolte durante l’estate del 2021 circa 600mila firme (sia in modalità tradizionale che on-line): di fronte ad un risultato non esaltante in termini di partecipazione, tradottosi in un numero troppo vicino alla soglia minima di 500mila sottoscrizioni, i proponenti hanno scelto di non procedere con il deposito delle sottoscrizioni in Cassazione, optando per un intervento coordinato di nove Consigli regionali a maggioranza di centro-destra che hanno deliberato sui medesimi quesiti. È evidente che questa decisione abbia ulteriormente fiaccato gli sforzi di quegli attivisti e militanti che si erano spesi per la raccolta delle firme, contribuendo a spegnere il faro dell’attenzione sulla campagna referendaria.
Vi è, poi, un’altra questione legata all’affluenza che merita di essere evidenziata: nella speranza di incentivare la partecipazione, contenere i costi ed evitare la chiusura delle scuole per far posto ai seggi, il referendum è stato abbinato alle consultazioni amministrative; tuttavia, ad oggi, l’unico risultato pratico ottenuto sembra essere quello di aver distolto ulteriormente proponenti ed elettori dalla campagna referendaria, in favore di quella per le elezioni comunali.
In linea col carattere divulgativo e, al contempo, scientifico che anima l’attività di Voci Costituzionali, in queste righe si cercherà di spiegare sinteticamente (senza pretesa di completezza) il testo dei quesiti, riflettendo in particolare sul rapporto che intercorre con il disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario e del CSM (c.d. riforma Cartabia), approvato dalla Camera e attualmente in fase di esame al Senato (A.S. n. 2595).

Quesito n. 1 (scheda rossa): “Abrogazione del Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguente a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi”.
Il c.d. “decreto Severino” prevede che chiunque ricopra una carica elettiva e/o di governo a qualsiasi livello (dal consigliere comunale all’eurodeputato) decada (o sia incandidabile) qualora riporti una condanna penale superiore a due anni per delitti di particolare allarme sociale o contro la pubblica amministrazione, ovvero superiore a due anni per delitti non colposi puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni.
Da tempo nel dibattito politico si registra la necessità di riformare taluni aspetti della disciplina in questione, laddove – per esempio – prevede la sospensione automatica per Presidenti di Giunta, assessori e consiglieri regionali e per i componenti degli organi delle unità sanitarie locali, nonché per i medesimi soggetti a livello provinciale e comunale, qualora siano colpiti da una condanna non definitiva per gli stessi reati da cui deriva la decadenza e l’incandidabilità.L’abrogazione totale del decreto proposta dal quesito, tuttavia, farebbe in modo che solo coloro che siano stati condannati alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici non possano ricoprire cariche elettive e pubbliche, circostanza tutt’altro che scontata.

Quesito n. 2 (scheda arancione): “Limitazione delle misure cautelari”.
Il secondo dei quesiti proposti punta all’abrogazione del pericolo di reiterazione del reato come motivazione della custodia cautelare. All’esito dell’abrogazione proposta, tali misure potrebbero essere concesse soltanto in caso di pericolo di inquinamento delle prove o pericolo di fuga, ovvero in caso di reati commessi con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale, ovvero delitti di criminalità organizzata. Se, da un lato, non si può ignorare che circa il 30% dei detenuti nelle carceri italiane sono in attesa di sentenza definitiva, dall’altro lato occorre ricordare che taluni reati, per le modalità della condotta che li caratterizza, sono più facilmente suscettibili di reiterazione.

Quesito n. 3 (scheda gialla): “Separazione delle funzioni dei magistrati”.
Il terzo dei quesiti proposti si pone l’obiettivo di eliminare la possibilità per i magistrati di passare dalla funzione requirente a quella giudicante (e viceversa): la disciplina attuale prevede fino a quattro passaggi possibili nel corso della carriera; tuttavia, la riforma dell’ordinamento giudiziario attualmente all’esame del Senato consente tale possibilità solo per una volta nei primi dieci anni di servizio.

Quesito n. 4 (scheda grigia): “Partecipazione dei membri laici a tutte le deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari. Abrogazione di norme in materia di composizione del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari e delle competenze dei membri laici che ne fanno parte”.
Il quarto quesito è senza dubbio il più complesso dal punto di vista tecnico.
Scopo della proposta è di far partecipare anche avvocati e professori universitari alla discussione e alla votazione dei pareri espressi dai Consigli giudiziari territoriali e presso la Cassazione, utilizzati poi dal CSM – organo di autogoverno della magistratura – per il giudizio di professionalità dei magistrati. Allo stato attuale, infatti, le due categorie citate possono partecipare alle discussioni in tale materia, ma senza poter votare la relazione finale del Consiglio giudiziario, a differenza di quanto avviene in seno al CSM stesso, nel quale tutti i componenti – togati e non – votano e partecipano alle votazioni in tali settori.Sul punto interviene l’art. 3 del già citato disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, riconoscendo il diritto di voto in ogni ambito di competenza dei Consigli giudiziari solo agli avvocati e non ai docenti universitari. Trattandosi di una legge di delega, poi, il Governo avrà la possibilità di specificare nei decreti delegati le modalità per assicurare imparzialità e obiettività nei giudizi espressi anche dai rappresentanti della classe forense.

Quesito n. 5 (scheda verde): “Abrogazione di norme in materia di elezioni sui componenti togati del Consiglio superiore della magistratura”.
Il quesito mira ad abrogare le disposizioni che prevedono che ciascun magistrato che intenda candidarsi per l’elezione dei componenti togati del CSM debba presentare un numero minimo di venticinque sottoscrizioni di colleghi. A detta dei proponenti, tale intervento ridurrebbe il peso delle correnti nella magistratura, pur non agendo sulle modalità di elezione in senso stretto dell’organo di autogoverno.
Anche in questo caso, occorre segnalare che l’art. 33 riforma dell’elezione del CSM interviene nel senso auspicato dal quesito abolendo il minimo delle sottoscrizioni richieste per la presentazione delle candidature per l’elezione del CSM.
Come si evince da quanto sommariamente evidenziato, la riforma della giustizia attualmente in discussione interviene in ben tre dei cinque ambiti oggetto dei quesiti, ora nello stesso senso auspicato dai promotori (nel caso dell’abolizione del numero minimo di firme per le candidature al CSM), ora in senso parzialmente diverso (nel caso della separazione delle funzioni e in quello del voto degli avvocati e dei docenti universitari nei Consigli giudiziari): a questo fine, non si può fare a meno di sottolineare come l’approvazione dei quesiti referendari potrebbe complicare l’iter di approvazione della riforma, costringendo le forze politiche a negoziare nuovi accordi.
Alberto Di Chiara
Dottorando in Diritto dell’Unione europea e Ordinamenti nazionali
Università degli Studi di Ferrara