Di norma una scelta dicotomica semplifica, ma non se esistono otto complessi quesiti a cui rispondere. Questa è la prospettiva che attende ciascuna cittadina e ciascun cittadino nella prossima primavera. O forse no. L’ultima parola spetterà alla Corte costituzionale che il prossimo 15 febbraio si pronuncerà sull’ammissibilità dei sei quesiti abrogativi in materia di giustizia, di quello riguardante il fine vita e, da ultimo, sul quesito in tema di legalizzazione della cannabis.
Ne parliamo con Luigi Testa, ricercatore di diritto pubblico comparato presso l’Università dell’Insubria e Academic fellow presso l’Università Bocconi.
Proviamo a mettere un po’ d’ordine sul contenuto delle richieste abrogative validate dall’Ufficio centrale per il referendum?
Si tratta di otto questi referendari, che per maggiore praticità potremmo raggruppare sotto tre voci, corrispondenti, peraltro, a tre iniziative distinte. C’è il quesito referendario sulla cosiddetta eutanasia legale, volto ad abrogare il reato di omicidio del consenziente, che resterebbe punibile solo quando la vittima è minorenne, o si trova in uno stato di fragilità mentale, o abbia prestato un consenso viziato nella volontà. Il secondo, invece, è il quesito volto a depenalizzare la coltivazione della cannabis e a rimuovere le pene detentive ad oggi previste per le condotte illecite legate alla sostanza psicotropa in parola. E poi c’è il grande gruppo dei quesiti in materia di giustizia.
Ecco, la giustizia, un tema che non smetterà mai di animare il Paese. In particolare, quali sono gli argomenti oggetto d’interesse di questa nuova campagna referendaria in materia?
L’abrogazione dell’obbligo, per un magistrato che voglia essere eletto al Consiglio Superiore della Magistratura, di dover accompagnare la sua candidatura ad un certo numero di firme; la possibilità di chiamare direttamente in causa un magistrato che abbia procurato un danno illecito; la possibilità di ammettere anche non-magistrati alla valutazione sull’operato dei giudici; la separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante; l’eliminazione della possibilità di poter applicare la custodia cautelare nel caso di rischio di reiterazione del medesimo reato; e infine l’abrogazione con colpo di spugna del Decreto Severino. Tanta carne a cuocere, insomma.
È un errore considerare il quesito sulla responsabilità civile dei magistrati come quello a più alto rischio di inammissibilità?
Onestamente, è difficile dire quale dei quesiti, tra quelli in materia di giustizia, sia a più alto rischio di inammissibilità, perché sono diversi quelli che, sotto questo profilo, hanno un rilevante grado di problematicità. Non si tratta, evidentemente, di un giudizio di merito, ma di una valutazione della tecnica normativa. Il referendum abrogativo è un potentissimo strumento nelle mani del corpo elettorale; anzi, tra gli istituti di democrazia diretta è certamente il più potente, per l’effetto diretto di legislazione negativa che esso realizza. Ma, per sua stessa natura, ha dei limiti strutturali non irrilevanti, perché costringe ad un’operazione di tipo binario che, in una materia a così alta e diffusa stratificazione normativa come quella dell’organizzazione della giustizia, rischia di produrre risultati, per così dire, claudicanti. E su questo la Corte costituzionale certamente vigilerà con attenzione.
Dunque, non esiste un quesito sulla giustizia dal quale emergano maggiori criticità in rapporto agli altri?
Certo, probabilmente il quesito sulla responsabilità dei magistrati è quello in cui questa difficoltà è più evidente, perché l’esito dell’operazione referendaria sarebbe nei fatti quello di disallineare la responsabilità del magistrato, che risponderebbe solo per dolo e colpa grave nel caso di azione diretta, mentre continuerebbe a rispondere anche per negligenza inescusabile nel caso di azione di rivalsa. Ma anche altri quesiti dello stesso gruppo tentano una tecnica abrogativa pericolosamente contorta, tanto da lasciare perplessi quanto alla loro ammissibilità: è il caso sicuramente del quesito sulla separazione delle carriere, ad esempio.
Sempre con riferimento ai referendum sulla giustizia, quali le appaiono i quesiti che – se trovassero una volontà abrogativa popolare – costringerebbero il legislatore a operare delle inevitabili correzioni alla normativa di risulta al crepuscolo della XVIII legislatura?
Per rispondere a questa domanda è necessaria una premessa, che continua in parte il discorso sul rischio di inammissibilità. La Corte naturalmente vigilerà e vaglierà la tecnica abrogativa impiegata e quali potrebbero essere i suoi effetti; tuttavia, nulla ci assicura che le perplessità che – assumiamo – la Corte potrebbe avere su questo piano, poi la condurranno necessariamente a dichiarare l’inammissibilità dei quesiti. Questo perché – mi pare – le criticità cui rapidamente si è accennato si situano in realtà in una terra di mezzo tra il giudizio sull’omogeneità, coerenza ed intellegibilità del quesito, che la Corte compie ordinariamente, e il giudizio invece sulla normativa di risulta, una sorta di controllo di costituzionalità anticipato, come lo chiama Luciani, che invece la Corte è reticente ad operare (o almeno a dichiarare). Dunque: se la Corte dovesse ascrivere tali perplessità ad una valutazione sulla normativa di risulta dalla quale astenersi, e dunque dovesse salvare l’ammissibilità dei quesiti, al legislatore ordinario spetterà poi un complesso lavoro di maquillage praticamente su ogni fronte: da quello della responsabilità civile a quello della separazione delle carriere. Senza contare gli interventi legislativi che riterrà di introdurre non per necessità ma per opportunità, magari recuperando alcune fattispecie del Decreto Severino che non hanno strettamente a che fare con la decadenza automatica di sindaci e amministratori locali, ma che contengono importanti norme anticorruzione.
Passiamo al tema dell’eutanasia. Quali delicati equilibri dovrà bilanciare il Giudice costituzionale all’atto del giudizio di ammissibilità?
Qui il discorso non è dissimile da quello appena fatto sulla giustizia. L’abrogazione dell’omicidio del consenziente, punibile solo in quelle marginali fattispecie di stato di minorità del soggetto passivo, opera come un colpo di spugna, senza preoccuparsi di quei limiti di garanzia che la Corte aveva fissato nella sentenza n. 242 del 2019 sull’aiuto al suicidio. Si ricorderà che in quella decisione la Corte si era guardata bene dall’annullare tout court la relativa norma incriminatrice, per non rischiare di lasciare privi di tutela una serie di soggetti vulnerabili che potrebbero essere facilmente indotti da altri a congedarsi prematuramente dalla vita. La preoccupazione della Consulta era chiara, ed era quella – nelle sue parole – di non operare «in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nella quali, spesso, simili decisioni vengono concepite». Da qui la scelta di escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio soltanto in presenza di alcune condizioni, tra cui l’esistenza di una dichiarazione anticipata di trattamento nelle forme consentite dalla legge del 2017.
E ora?
Evidentemente, un’operazione referendaria, proprio per i limiti strutturali di cui si parlava prima, non è in grado di tener fronte a tutte queste premure, diciamo così. E, d’altra parte, la dichiarazione d’intenti dei promotori è coerente, laddove non nasconde che l’intento del referendum è anzitutto politico, nel senso di provocare il legislatore ordinario ad intervenire a regolare la materia, contando sul fatto che chi di competenza non lascerà scoperto lo spazio vuoto lasciato dall’abrogazione referendaria. Contare però su un intervento rimediale del Parlamento è pericoloso, e d’altra parte si rischia di provocare un’ansia da prestazione che facilmente andrà a tutto danno della qualità (declinata anche in termini di condivisione) del risultato. Anche qui: queste perplessità possono essere intese dalla Corte costituzionale o come questioni di omogeneità, coerenza ed intellegibilità del quesito, a condizionarne l’ammissibilità, o come un giudizio sulla normativa di risulta, di per sé non condizionante. Peraltro, essendo il confine tra le due cose talvolta così difficilmente tracciabile, non ci sarebbe da stupirsi che – su questo quesito così come sugli altri, e su ogni altro quesito referendario – la Corte ascriva le sue perplessità all’uno o all’altro tipo di valutazione, a seconda del risultato che riterrà più opportuno conseguire. Si sa che talvolta i giudici prima decidono e poi argomentano; e la Corte è pur sempre un giudice.
Esiste qualche possibilità che l’ultimo dei referendum abrogativi in materia di legalizzazione della cannabis possa non essere ammesso a una consultazione popolare?
Qui non mi pare di ravvisare alcun rischio rilevante, in realtà.
Risale al 2016 l’ultimo referendum abrogativo del nostro Paese, quando l’invocata astensione dal voto contribuì al mancato raggiungimento del 50%+1 dei votanti. Trova ancora ragioni costituzionali la presenza di un quorum o andrebbe assecondata la proposta di rimodulazione che proviene da più parti?
Quando il costituente scrive l’art. 75 ha in mente un tipo di società molto diversa da quella a noi contemporanea. E, probabilmente, ha in mente una cittadinanza politicamente molto più attiva di quella di oggi. Fino alle elezioni politiche del ’79, in Italia, abbiamo avuto tassi di partecipazione elettorale pari al 90%. Poi, il trend astensionista ha cominciato la sua rapida ascesa, nei termini che conosciamo bene. Questa considerazione forse renderebbe opportuna una rimodulazione del quorum strutturale per le consultazioni referendarie (di tipo abrogativo), magari parametrandolo ai dati delle affluenze alle più recenti elezioni politiche. Una cosa del genere prevedeva, peraltro, la fallita riforma costituzionale del 2016.
La «Repubblica dei referendum» descritta in dottrina da Barbera e Morrone potrebbe presto aver bisogno di un aggiornamento che osservi nel 2022 una nuova stagione referendaria o non ci sono elementi per intravedere una vivificazione dell’istituto?
Non parlerei della necessità di una “vivificazione” dell’istituto, che in realtà mi pare già bello vivo. Dal primo referendum sul divorzio nel ’74, con intensità crescente, in Italia abbiamo avuto consultazioni referendarie praticamente ogni due o tre anni. Certo, nell’ultimo decennio si è assistito forse ad una battuta d’arresto, a parte il caso del 2016 sugli idrocarburi che abbiamo già citato. Ma non credo che questo sia ascrivibile ad una crisi dell’istituto in sé, quanto piuttosto ad una più generale crisi della partecipazione politica e della politica tout court – di cui è sufficientemente indicativa la natura non sempre pienamente politica dei governi che si son succeduti, oltre che gli episodi di difficoltà nell’elezione del Presidente della Repubblica. A questo naturalmente si aggiungono altri fattori esogeni che probabilmente possono avere inciso sul rallentamento delle iniziative di abrogazione referendarie nell’arco degli ultimi dieci anni: la crisi economica e i suoi strascichi, poi naturalmente la pandemia, e forse non da ultimo la catalizzazione dell’opinione pubblica sul referendum costituzionale del 2016 e, in misura un po’ minore, su quello del 2020.
Dopo l’approvazione dell’“emendamento Magi” che ha permesso la raccolta delle firme online, Pallante ha scritto che «La schiera dei nemici del Parlamento è già fin troppo fitta: ci mancava solo che vi si aggiungesse il Parlamento stesso». A conti fatti, l’emendamento è risultato decisivo per il raggiungimento delle sottoscrizioni per il quesito sul fine vita ed essenziale quanto alla legalizzazione della cannabis. Le Camere hanno forse creato un legislatore negativo permanente?
Sul punto, vale la premessa che abbiamo fatto appena sopra: l’autore dell’art. 75 della Costituzione ha in mente un certo tipo di società, così come, invero, l’autore della legge del 1970 sul referendum abrogativo. Ed era, per entrambi, una società in cui raccogliere cinquecentomila firme in fogli vidimati richiedeva un investimento di energie – già solo in termini di tempo – notevolissimo, forse quasi eccessivo. Ma lo sforzo di raccogliere cinquecentomila firme con un click da casa – senza alcun bias cognitivo nei confronti dei click, per carità – si situa all’eccesso opposto. Bene dunque la spid-democracy, per le iniziative referendarie e ancor più per le iniziative legislative popolari: è un passaggio che si può solo governare, e non impedire.
Ma la spid-democracy non rischierebbe di provocare un’alterazione degli equilibri fra democrazia rappresentativa e partecipazione popolare?
Quando il costituente prevedeva le cinquecentomila firme ai tavolini e il relativo investimento di energie fissava in realtà un rapporto ben preciso tra la regola della democrazia rappresentativa e l’eccezione della democrazia diretta, di cui il referendum è il principale strumento. E, si badi, non c’è alcun giudizio valutativo nel parlare di regola e di eccezione: è solo la più esatta rappresentazione dell’ingegneria costituzionale della nostra democrazia. Se non si vuole alterare questa ingegneria costituzionale, è necessario che quel rapporto fissato dal costituente venga mantenuto, pur modificandone i termini assoluti, e dunque innalzando il numero di firme richiesto. E questo a prescindere da ogni rischio di alluvione di iniziative referendarie; non è questo il punto; anzi, non parlerei neanche di rischio, perché una più vivace partecipazione politica non è mai un rischio. Il punto è un altro: non compromettere il rapporto tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta. Almeno se si vuol rimanere fedeli allo spirito della Costituzione.
Diego Baldoni
Dottorando in Diritto – Curriculum pubblicistico
Università degli Studi di Genova