Chi studia e vive il diritto costituzionale (oltre che, naturalmente, chi si occupa delle discipline penalistiche) non può non considerare con speciale attenzione la visita alla Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere che mercoledì hanno condotto il presidente del Consiglio Mario Draghi e la ministra della giustizia Marta Cartabia, sia per il valore del gesto sia – soprattutto – per le parole che lì sono risuonate.
Sembra opportuno mettere da parte, almeno per un momento, la tentazione di pensare che quelle siano state «solo parole», ben scelte e ponderate ma prive di seguito: non si conosce il futuro, nessuno può escludere che quel timore sia fondato (ma c’è da augurarsi che non sia così, per il bene dell’intera società), ma ora quelle parole servono soprattutto a noi e a chiunque abbia davvero voglia di ascoltarle e capirle.
Innanzitutto chiamano le cose con il loro nome: «Oggi non siamo qui a celebrare trionfi o successi, – ha detto Draghi in apertura – ma piuttosto ad affrontare le conseguenze delle nostre sconfitte». «Sconfitte», al plurale, perché gli episodi in cui la dignità delle persone recluse è stata ed è lesa, fino a volte ad essere azzerata, sono tanti (anzi, troppi), anche quando non si è raggiunto il livello «inumano e degradante» (oltre che vergognoso) testimoniato dalle immagini diffuse da il Domani, relative a quanto accaduto proprio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020. «Nostre», perché al di là della responsabilità penale, in capo a singole persone e ancora da accertare, è l’intera società a uscire con le ossa rotte da ogni singolo fotogramma di quei filmati e da ogni altro momento di violazione della dignità accaduto lì o altrove.
«Non può esserci giustizia dove c’è abuso. E non può esserci rieducazione dove c’è sopruso.» In queste altre, nette parole di Draghi fa capolino il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione, che a noi è ben presente (si spera), ma troppo spesso sembra non essere conosciuto, considerato o praticato dalla gran parte delle persone: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Conta ciò che madri e padri costituenti hanno scritto, come pure ciò che non è stato scritto. Può colpire che in tutto il testo costituzionale non sia mai citata la funzione “retributiva” della pena (cioè come risposta al “male” compiuto) o quella di difesa sociale della stessa, mentre si parla espressamente solo della funzione rieducativa.
Rileggendo i lavori della Costituente si avverte che il testo dell’art. 27, comma 3 è stato frutto di mediazioni, nemmeno troppo semplici, tra chi sosteneva idee diverse sulla pena: la formulazione finale è comunque frutto di scelte ben precise. Forse si è creduto che, specie tra le persone comuni, fosse scontato che la pena servisse a punire sulla base dei reati compiuti, mentre risultasse assai meno ovvia l’ancora maggiore importanza di rieducare, per non essere nelle condizioni di punire di nuovo. Quella disposizione, insomma, sta lì a ricordare a chiunque non a cosa serve la pena, ma a cosa deve servire.
Le parole della ministra Cartabia, per questo, meritano molta attenzione. C’è la consapevolezza di «questioni irrisolte da lungo tempo» che affliggono il sistema carcerario e che la pandemia Covid-19 ha solo aggravato (in modo pesantissimo, visti i risvolti sulla salute, fisica e mentale). Il sovraffollamento degli istituti di pena è uno di questi problemi, ma è «il più grave tra tutti», perché si traduce in uno «spazio dove è difficile anche muoversi, dove d’estate, come abbiamo sperimentato anche oggi, si fa fatica persino a respirare». Difficile parlare, in quel contesto, di umanità, figurarsi di rieducazione. Non a caso l’Italia è stata condannata più volte dalla Corte europea per i diritti umani per quelle condizioni ritenute «trattamenti inumani e degradanti». Frasi che spesso (purtroppo) si leggono o si ascoltano, come «lo hanno meritato!» o «è un carcere, non un albergo!» – oltre a non tenere conto che dietro le sbarre si può finire da innocenti, e che i risarcimenti da ingiusta detenzione pesano sulle casse dello Stato, come quelli per “tortura da sovraffollamento” – sono del tutto al di fuori del sistema costituzionale e delle regole del gioco.
Un’altra frase ricorrente è «Costruiamo più carceri allora!». È una risposta più sensata (anche se chi propone questa soluzione spesso non ricorda che edificare nuove strutture richiede tempo e molte risorse), ma senza il giusto atteggiamento rischia di essere parziale. Perché, per usare di nuovo le parole di Cartabia, «nuove carceri, nuovi spazi, non può significare solo posti letto». Se si mette da parte la strana sensazione che si ha nel leggere di «posti letto», come se si parlasse di un ospedale o di un albergo (vale ciò che si è già detto), non sfugge il senso del discorso: non servono solo più celle per far stare “meno strette” le persone detenute, ma servono anche e soprattutto «spazi trattamentali», dedicati alle attività formative, culturali o anche solo ricreative. Così come serve anche la manutenzione delle strutture esistenti: «vivere in un ambiente degradato – ha aggiunto la ministra – di sicuro non aiuta l’impegnativo percorso di risocializzazione e rende ancor più gravoso il lavoro di chi ogni mattina supera questo cancello per svolgere il suo lavoro».
Cartabia ha dato poi attenzione alle «forme di punizione diverse dal carcere», da applicare soprattutto in sostituzione alle pene detentive brevi. Per la ministra non si tratta di «rinunciare alla giusta punizione degli illeciti», ma – visto che lo stesso art. 27, comma 3 della Costituzione parla di «pene», senza limitarsi alla reclusione – di trovare altri sistemi perché il “debito con la società” di chi ha commesso reati possa essere estinto (a partire dai lavori di pubblica utilità), limitando il rischio che quelle persone, anche a causa di un ambiente che le ha incattivite invece che rieducarle, delinquano di nuovo. Occorrono nuove norme che consentano questo, così come è fondamentale (sempre secondo Cartabia) la sensibilità dei magistrati di sorveglianza; la ministra non ha fatto cenno a provvedimenti di clemenza generale (dunque amnistia e indulto), una strada non facile da percorrere in questo contesto politico, ma da non escludere a priori.
Oltre alle strutture, però, occorrono le persone. L’attenzione sacrosanta per le condizioni dei detenuti e l’indignazione per episodi come quello accaduto a Santa Maria Capua Vetere non può far dimenticare che il ruolo di chi opera nelle strutture carcerarie (come agente di polizia penitenziaria, dirigente, educatore) è delicatissimo, proprio perché deve concorrere a quella rieducazione richiesta dalla Costituzione. Servono innanzitutto più persone, perché chi lavora possa farlo in condizioni di maggiore serenità (la ministra ha parlato di un organico gravemente sottodimensionato); queste persone vanno adeguatamente equipaggiate, ma soprattutto vanno formate di continuo, tasto su cui Cartabia ha giustamente battuto molto, perché il compito di chi vigila, accompagna e rieduca non sia lasciato «all’improvvisazione o alle doti personali» (e non rischi, si aggiunge qui, di prendere altre vie, indegne di un Paese che si proclama civile).
Occorre tutto questo – e sì, bisogna investire molte risorse, spendere tanti soldi – perché chi entra in carcere possa davvero uscire migliore senza rischiare di tornarci e anche perché le scene di Santa Maria Capua Vetere che hanno indignato molte persone (purtroppo non tutte) non si ripetano mai più. La reclusione, pur prevista dall’ordinamento, «è soltanto privazione della libertà, non più di questo». Lo diceva, nelle sue Lezioni di istituzioni di diritto e procedura penale, Aldo Moro: si stringe il cuore – con tanta gratitudine per chi, come Andrea Pugiotto, non si stanca di denunciare, con queste e altre parole, il volto del “delitto della pena” – a pensare che, in una delle sue “lettere dal carcere” indirizzata al ministro dell’interno Francesco Cossiga, avrebbe scritto in un inciso «Io comincio a capire che cos’è la detenzione», lui che lo sapeva già e molto bene. Come si legge anche altrove, «a ogni giorno basta la sua pena», non se ne deve aggiungere altra. Vale anche tra le mura di un carcere: se non è così, è una sconfitta per chiunque.
Gabriele Maestri
Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e istituzioni politiche comparate
Cultore di Diritto dei partiti presso l’Università degli Studi Roma Tre