di Alessandro Francescangeli
Assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato
Università degli Studi di Firenze
1. Introduzione
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 10 del 2025, ha sancito la non ammissibilità del quesito referendario di abrogazione totale della legge 26 giugno 2024, n. 86, relativa alle disposizioni di attuazione — rectius: applicazione — dell’autonomia particolare di cui all’art. 116 terzo comma (c.d. legge “Calderoli”).
Le vicende relative all’iniziativa referendaria sono note e possono qui essere ripercorse solo nelle loro linee essenziali. Per l’abrogazione della legge Calderoli sono infatti state promosse tre iniziative referendarie: due per l’abrogazione dell’intera legge (c.d. “quesito totale”), da parte di cinque consigli regionali (Campania, Emilia-Romagna, Puglia, Toscana, Sardegna) e su iniziativa popolare; e una concernente un quesito “parziale”, riguardante solo specifiche parti della legge, promosso dalle medesime regioni. Tra la proposizione dei quesiti e le decisioni su legittimità e ammissibilità è poi intervenuta la sentenza n. 192/2024, nell’ambito del ricorso di legittimità costituzionale promosso da alcune regioni (quelle che avevano richiesto il referendum tranne l’Emilia-Romagna). In tale decisione la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di numerose norme della legge Calderoli e ha dato una (re-)interpretazione costituzionalmente orientata di altre, accogliendo così, de facto, alcune delle critiche di merito (costituzionale) avanzate, tanto dal comitato promotore, quanto dalla dottrina, anche in sede di audizioni. A tale sentenza è seguita la decisione della Corte di Cassazione sulla legittimità dei quesiti referendari del 12 dicembre 2024 [1]: in tale ordinanza l’Ufficio centrale per il referendum ha dichiarato superato il quesito parziale a seguito della sentenza di illegittimità costituzionale, mentre ha ritenuto non “sufficiente” per il venir meno del quesito l’innovazione prodotta dalla sentenza n. 192.
Si sono originati, pertanto, due ordini di problemi: un primo relativo all’ammissibilità del quesito originale e un secondo relativo all’ammissibilità del quesito successivamente alla sentenza n. 192 della Corte costituzionale.
2. L’ammissibilità del quesito “originale”: «Volete voi che sia abrogata la legge 26 giugno 2024, n. 86 …?»
Prima della sentenza n. 192 sono stati principalmente tre i (presunti) motivi sollevati in dottrina e nel dibattito politico relativi a una possibile inammissibilità del quesito referendario: il collegamento con la legge di bilancio, la qualificazione della stessa legge come a “contenuto costituzionalmente necessario” e, infine, la possibile disomogeneità del quesito [2].
La Corte, al § 6 del Considerato in diritto ha respinto il collegamento tanto con le leggi tributarie, quanto con quella di bilancio. Per le prime, in linea con le posizioni espresse dalla dottrina [3] e con la giurisprudenza precedente (ad es. sent. n. 51/2000), ha ritenuto le disposizioni riguardanti i tributi come non attinenti «né al momento costitutivo, né a quello attuativo di una fattispecie impositrice» (§ 6.1) e, pertanto, non rientranti nel limite di cui all’art. 75. Per la legge di bilancio, invece, la Corte ha innanzitutto rilevato come sia venuto meno il collegamento operato dalla legge “Calderoli” con la legge di bilancio per il 2023 a causa della dichiarazione di illegittimità costituzionale in via consequenziale di quest’ultima operata nella 192 (dell’art. 1, commi da 791 a 801-bis, della legge n. 197/2022) [4]. Inoltre, stante la clausola dell’invarianza finanziaria, nonché la mera formalità del collegamento con la legge di bilancio (come quello operato dal Governo nel DEF), non ha ritenuto sussistente lo «stretto collegamento genetico, strutturale e funzionale con la procedura di bilancio» necessario per l’inammissibilità, secondo l’interpretazione data dalla Corte ai fini dell’art. 75 (§ 6.2).
Per quanto concerne i limiti impliciti di “necessità” della legge — che, come è noto, sono stati declinati dalla Corte in più riprese nei termini di leggi considerate a contenuto costituzionalmente vincolato, ovvero leggi costituzionalmente necessarie, ovvero ancora leggi che implementano una tutela minima costituzionale — la Corte affronta la questione, che aveva maggiormente animato la discussione in dottrina, nel § 6.3 del Considerato in diritto. Laconicamente — ma in coerenza con quanto sostenuto nella sent. 192/2024, §§ 7.2 e 30.2 — la Corte afferma con ancora maggiore chiarezza che «va escluso che la legge n. 86 del 2024 sia costituzionalmente necessaria ai fini dell’attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost.».
La decisione della Corte sul punto, coerente con la posizione espressa dalla dottrina maggioritaria [5], appare sostanzialmente condivisibile. Non può essere questa la sede per ripercorrere la giurisprudenza costituzionale in materia [6], basti qui rilevare come il contenuto della legge Calderoli — da un lato meramente procedurale, dall’altro sostanzialmente ricognitivo (con riferimento ai LEP, ad esempio) — non risulta quindi capace né di integrare il contenuto minimo costituzionalmente necessario in tema di autonomia regionale; né, dal punto di vista dei diritti (come nel caso dei LEP), capace di incidere sul contenuto minimo della tutela costituzionale degli stessi, stante, tra le altre cose, la clausola dell’invarianza finanziaria.
In altri termini, la legge n. 86 appare come uno strumento facoltativo e non costituzionalmente obbligato e la sua “inattuazione” (recte: non applicazione) fino al 2024 non può essere considerata come una “lacuna” costituzionalmente illegittima.
Conseguentemente — e appare importante sottolinearlo — la procedura di differenziazione di cui all’art. 116 appare per il decisore politico nazionale meramente facoltativa, per cui anche nell’ipotesi in cui — posizione che non appare compatibile con la sentenza della Corte — si ritenesse la legge “Calderoli” come pregiudiziale necessaria per la procedura di cui all’art. 116, comma 3, essendo l’attivazione di tale procedura meramente discrezionale l’abrogazione della legge n. 86 non causerebbe alcun vulnus al contenuto minimo delle norme costituzionali. Dal punto di vista giuridico, inoltre, appare difficile ipotizzare che le leggi rinforzate approvative delle intese possano comunque essere vincolate dalla legge n. 86: motivo ulteriore per considerare non costituzionalmente necessaria tale normativa.
Per quanto riguarda i limiti impliciti riguardanti il quesito — ovvero il divieto di richieste referendarie non omogenee, non chiare o contraddittorie —, era stata sollevata in dottrina la questione della omogeneità del quesito, requisito individuato sistemicamente dalla Corte costituzionale già a partire dalla sent. n. 16 del 1978.
Tale limite di ordine ontologico, individuato dalla Corte per scongiurare un possibile allontanamento «manifesto ed arbitrario dagli scopi in vista dei quali l’istituto del referendum abrogativo è stato introdotto nella Costituzione, come strumento di genuina manifestazione della sovranità popolare» [7], come è noto, è venuto nel corso del tempo trasformandosi, perdendo l’originaria coerenza. Esso è passato infatti «dall’omogeneità alla completezza, alla chiarezza e semplicità, all’univocità, alla coerenza del quesito referendario», fino ad arrivare ad abbracciare, a partire dalle sentenze sulla legge elettorale, il «requisito della congruità fra intento referendario, formulazione del quesito e potenziale esito del referendum» [8].
Con riferimento alla legge n. 86, per quanto la stessa presenti al proprio interno una molteplicità di ambiti diversi — almeno fino alla sentenza n. 192 — non sembravano scorgersi particolari problematiche di ammissibilità. Nel caso di un quesito totale, infatti, la ratio appariva evidentemente unica e coerente con quella originale del legislatore. Inoltre, apparivano soddisfatti i requisiti posti dalla giurisprudenza successiva alla 16 del 1978: la richiesta risultava completa (investendo tutte le disposizioni correlate all’oggetto del referendum), avente un fine evidente (risultava chiaro il risultato che si intendeva raggiungere con l’abrogazione), nonché idonea a raggiungere lo scopo prefissato dai proponenti in maniera tale che vi fosse congruità tra intento referendario, formulazione del quesito e potenziale esito del referendum [9].
Tuttavia, la questione, secondo la Corte, è mutata dopo la sentenza 192/2024.
3. L’ammissibilità del quesito «… come risultante a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 192/2024»
Occorre preliminarmente notare come l’ipotesi della sopravvenienza di una declaratoria di incostituzionalità non è espressamente disciplinata dalla legge n. 352 del 1970 attuativa dell’istituto referendario. La Corte di cassazione, nel proprio compito di verifica della vigenza formale e sostanziale della legge sottoposta a quesito, ritiene (§ 8.2, p. 20, dell’ordinanza) — discutibilmente — di poter estendere in via analogica le norme relative all’abrogazione da parte del legislatore della disciplina oggetto di richiesta referendaria (art. 39). La disciplina in oggetto, come è noto, dispone che la Cassazione debba interrompere la procedura referendaria nel caso in cui le disposizioni oggetto del quesito abrogativo siano abrogate, ed è stata oggetto di un intervento additivo della Corte costituzionale nella sent. n. 68 del 1978. In tale occasione, la Consulta ha dichiarato incostituzionale la normativa de quo «limitatamente alla parte in cui non prevede che se l’abrogazione degli atti o delle singole disposizioni cui si riferisce il referendum venga accompagnata da altra disciplina della stessa materia, senza modificare né i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, il referendum si effettui sulle nuove disposizioni legislative».
Il giudizio sulla “abrogazione sufficiente” (rectius: “declaratoria di illegittimità costituzionale sufficiente”) è quindi, in via di principio, competenza della Corte di cassazione (cfr. §§ 8.4-8.5 dell’ordinanza).
Sul punto i giudici della suprema Corte hanno rilevato come non vi sia dubbio che la sentenza della Consulta abbia «inciso in maniera assai intensa sulla legge in questione, ravvisandone sotto plurimi profili l’illegittimità» (§ 9.1) e che altre numerose disposizioni siano state conservate purché «fatte oggetto di un’interpretazione costituzionalmente orientata». Tuttavia, la Cassazione ha rilevato che «molte disposizioni della legge hanno resistito ad un così penetrante controllo di legittimità costituzionale», ritenendo che «il pur massiccio effetto demolitorio apportato dalla sentenza non equivalga, secondo i parametri analogici […], ad un livello di abrogazione sufficiente ad arrestare la procedura referendaria» relativa al quesito c.d. “totale” (§ 9.4). Secondo la Cassazione, a tale conclusione concorrono almeno tre elementi: in primo luogo, dai i numerosi rigetti “puri” delle altre questioni sollevate si evincerebbe «la sopravvivenza della legge nel suo complesso»; in secondo luogo, l’operazione ermeneutica delle questioni risolte con interpretative di rigetto rimarcherebbe «la permanenza di un nucleo normativo che non solo resta oggi formalmente vigente, ma vi resta convalidato nella interpretazione adeguatrice che ne è stata data nella sentenza in esame»; in terzo luogo, la Cassazione evidenzia come il Parlamento sia chiamato dalla Corte costituzionale «nell’esercizio della sua discrezionalità» a colmare le lacune dovute alla sentenza di illegittimità (§ 9.4).
In tal senso l’Ufficio centrale ha concluso ritenendo che la disciplina post intervento della Consulta sia «un sostrato dispositivo bastevole a dare corso, seppure con i necessari interventi parlamentari di adeguamento, al disegno fondamentale ed ai principi ispiratori di attuazione del regionalismo differenziato», cosicché la permanenza di un «fondo regolativo idoneo (per principi, regole e disposizioni ‘quadro’) ad ispirare e conformare futuri interventi legislativi di adeguamento al dettato della Corte Costituzionale è condizione necessaria e sufficiente a concretare la permanenza di materia referendaria, quand’anche si ritenesse l’inattuabilità di fatto, al momento, della legge» (§ 9.4).
È dalla stessa premessa della forte incisione sulla legge n. 86, nonché dalla permanenza della materia referendaria decisa dalla Cassazione, che la Corte costituzionale ritiene di dover partire per valutare se «la permanenza del suddetto “fondo regolativo”, ritenuto sufficiente ad assicurare la conformità a legge della richiesta referendaria, costituisca una condizione altrettanto sufficiente a consentire l’ammissibilità del referendum, quanto alla possibilità di esprimere un voto libero e consapevole» (§ 8).
La Corte costituzionale ha così giudicato non chiaro tanto l’oggetto quanto la finalità del quesito referendario.
L’argomentazione della Consulta parte dal rilevare come la sentenza n. 192 del 2024 abbia inciso sull’«architettura essenziale» della legge, lasciandone in vita solo un «contenuto minimo». Secondo i giudici, tale contenuto sarebbe «di difficile individuazione», provocando un effetto negativo «sulla comprensibilità del quesito da parte del corpo elettorale, oltreché sul fine ultimo, o ratio, della stessa richiesta referendaria» (§10.2).»
L’oggetto del quesito sarebbe così «privo di chiarezza» (§ 10), «obiettivamente oscuro per l’elettore», «non decifrabile», in quanto esso «che originariamente riguardava la legge n. 86 del 2024 nel suo testo iniziale […] ora riguarda quel che resta della legge a seguito delle numerose e complesse modifiche apportate dalla citata sentenza di questa Corte» (§ 10.3). Secondo la Corte, l’elettore si troverebbe quindi «in una condizione di disorientamento, rispetto sia ai contenuti, sia agli effetti di quel che resta della legge n. 86 del 2024. Con la conseguenza che tale disorientamento impedirebbe l’espressione di un voto libero e consapevole, che la chiarezza e la semplicità del quesito mirano ad assicurare» (§ 10.3).
La Corte ritiene, infine, che la mancanza di chiarezza dell’oggetto si riverberi sulla sua finalità, determinando «un’insuperabile incertezza sulla stessa finalità obiettiva del referendum», con il rischio che esso si tramuti in «un’opzione popolare non già su una legge ordinaria modificata da una sentenza di questa Corte, ma a favore o contro il regionalismo differenziato» (§ 11). In tal senso, nel caso in cui «si ammettesse la richiesta in esame, si avrebbe una radicale polarizzazione identitaria sull’autonomia differenziata come tale, e in definitiva sull’art. 116, terzo comma, Cost., che non può essere oggetto di referendum abrogativo, ma solo di revisione costituzionale» (§ 11).
4. Tutto “chiaro”?
La decisione della Corte costituzionale solleva tuttavia alcune perplessità.
Una questione preliminare ha riguardato innanzitutto la lettera del quesito: in sede di commento dell’ordinanza dell’Ufficio centrale, parte della dottrina aveva infatti espresso dubbi sulla semplificazione operata dalla Cassazione nella formulazione letterale del quesito (dove si era aggiunto «come risultante a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 192/2024»), ritenendo preferibile un quesito con l’elenco puntuale delle disposizioni [10]. Al di là del merito della questione in punto di diritto, appare comunque evidente che un quesito formulato in altro modo sarebbe risultato sicuramente meno intellegibile all’elettore di quello effettivamente formulato dalla Cassazione, che appare forse semplice, ma sostanzialmente chiaro.
Tornando al merito della decisione di inammissibilità, occorre a tal punto chiedersi se il giudizio sulla chiarezza del quesito in sede di ammissibilità operato dalla Corte costituzionale non vada a coincidere, de facto, con quello assegnato dalla legge alla competenza della Corte di cassazione.
Preliminarmente, si può essere d’accordo con chi ha sottolineato come l’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum sia stata abbastanza parca con riferimento alle argomentazioni relative al suo giudizio di non “abrogazione sufficiente” [11].
Si pensi, in primo luogo, all’estensione analogica operata tra il giudizio «abrogazione sufficiente» e quello di «dichiarazione di illegittimità costituzionale» sufficiente: guardando alla ratio della sentenza n. 68 del 1978, tale decisione — che scaturiva da un’autorimessione in un conflitto di attribuzione sollevato dal comitato promotore del referendum — assegnava alla Cassazione il giudizio sul mutamento di intenzione del legislatore che si estrinsecava sul cambiamento (oggettivo) dei principi ispiratori della disciplina in oggetto. In tali termini, se «l’“intenzione del legislatore” rimane fondamentalmente identica, malgrado le innovazioni formali o di dettaglio che siano state apportate dalle Camere, la corrispondente richiesta non può essere bloccata, perché diversamente la sovranità del popolo (attivata da quella iniziativa) verrebbe ridotta ad una mera apparenza» (§ 3).
È vero che è individuabile una ratio legis in senso oggettivo, alterabile dall’intervento della Consulta, ma la ratiodella sentenza n. 68/1978 si inseriva quindi in un conflitto tra circuiti democratici diversi, quello rappresentativo, rappresentato dalla intenzione del legislatore e quello diretto, rappresentato dalla finalità (anche soggettiva) del comitato promotore del referendum, che si andavano a “ricomporre” nel caso di un mutamento di intenzione del legislatore.
Nel caso in cui il mutamento dei principi della legge avvenga grazie all’intervento di un soggetto terzo — la Corte costituzionale — e non per un mutamento di intenzione del legislatore, appare effettivamente applicabile in via analogica la regola stabilita dalla 68 del 1978?
Su tale questione sarebbe stato auspicabile un intervento chiarificatore della Consulta, perché il caso di specie risulta assai diverso, tanto nella forma quanto nella sostanza con quello deciso nella sentenza n. 68, tanto è vero che, dal punto di vista politico, non sembrano in alcun modo essere cambiante le intenzioni del legislatore.
Inoltre, la 68 del 1978 si poneva la finalità di fornire all’ordinamento (e quindi alla Cassazione) «adeguati mezzi di tutela dei firmatari delle richieste di referendum abrogativo» (§ 3), proteggendoli da modifiche solo formali, mentre l’utilizzo che ne fa la Consulta, nell’interpretazione della Cassazione, appare opposto (cioè un superamento del dato formale per ragioni sostanziali).
Dalla mancanza di tale intervento chiarificatore — sulla portata e finalità dell’intervento della Cassazione ai sensi della 68/1978 — sembrano poi sorgere problematiche ulteriori.
Appare un dato acquisito, infatti, che la Corte di cassazione svolga tale giudizio di “modifica sufficiente” e arrivi alle conclusioni per cui non solo sussiste un «fondo regolativo» che può essere oggetto di referendum, ma che tale normativa risulti sostanzialmente coerente con i principi perseguiti dal legislatore prima della sentenza della Corte e nonostante le sostanziali modifiche pervenute.
Tale conclusione della Cassazione può anche convincere poco, ma, in coerenza con la sua giurisprudenza precedente, sarebbe dovuta giungere alla Consulta come un dato di fatto. La Corte costituzionale, invece, pur mantenendo formalmente distinte le due questioni, prende atto del quesito derivante della Cassazione e opera un nuovo e distinto giudizio sulla rilevanza delle — proprie — innovazioni alla legge Calderoli (§ 8), questa volta nell’ottica formale della chiarezza del quesito.
Ma, nel caso in cui fosse stato accettato il giudizio dell’Ufficio centrale per il referendum quali effettivi dubbi sull’oggetto del quesito sarebbero potuti sorgere? L’oggetto del referendum era (e sarebbe rimasto) la legge di attuazione dell’art. 116, terzo comma: chiara opzione politica del legislatore, discrezionale tanto nell’an (procedere con l’attivazione del 116, terzo comma), quanto nel quomodo (farlo attraverso una legge quadro). Il giudizio della Cassazione era — per quanto contestabile — assolutamente chiaro.
Certo è che nelle critiche politiche apportate dai promotori alla legge “Calderoli” vi erano anche questioni di legalità costituzionale che hanno trovato soddisfazione con la sentenza n. 192, ma non si può certo sostenere che la finalità referendaria fosse il ristabilimento della legalità costituzionale e non l’abrogazione di una legge frutto della discrezionalità del legislatore: a provarlo l’attività delle regioni ricorrenti che hanno sia sollevato il ricorso in via diretta, sia richiesto il referendum. Evidentemente le due finalità non sono sovrapponibili.
Si noti come, paradossalmente, se la Cassazione non avesse ritenuto applicabile in via analogica la fattispecie di cui alla sent. 68 — evitando di operare un ragionamento nel merito del mutamento dei principi e limitandosi a spostare il quesito “sulla legge n. 86 per come risultante dalla sentenza 192” — non ci sarebbe stata nessuna sovrapposizione di giudizi.
Ulteriori dubbi sorgono poi con riferimento alle argomentazioni relative alla chiarezza della finalità (§ 11). Da un lato, infatti appare proprio dello strumento referendario — anche per come interpretato dalla Corte negli anni — quello di chiamare gli elettori non a pronunciarsi in senso formale sulla vigenza di atti, ma a compiere scelte politiche fondamentali per la vita comune. Nella misura in cui l’applicazione del 116 è e rimane una scelta discrezionale nell’an e nel quomodo, non si capisce come un quesito per l’abrogazione totale della legge n. 86 possa risolversi in un voto «a favore o contro il regionalismo differenziato» e come la sentenza n. 192 possa aver influito in tal senso. Non lo è — e non lo può essere — nel senso di un voto contro la possibilità del regionalismo differenziato (nei termini giustamente ricondotti a Costituzione dalla sentenza n. 192), ma ben avrebbe potuto essere un voto contro questa (e, se del caso, dal punto di vista politico, anche futura) attuazione del 116.
Non si vede infatti perché non si possa determinare, dal punto di vista costituzionale, una «radicale polarizzazione identitaria sull’[applicazione dell’]autonomia differenziata», dal momento che essa ricade nella discrezionalità politica del legislatore ed è tipico del referendum operare polarizzazioni su due alternative nette [12]. In tal senso, se da un punto di vista di “politica giudiziaria” si può comprendere una certa ritrosia della Corte nel mettere a repentaglio la propria costruzione in tema di autonomia differenziata (che sarebbe stata in parte azzerata da un’abrogazione referendaria), dal punto di vista del sistema delle fonti e dei poteri tale posizione non pare sostenibile.
Infine, altrettanto problematico appare un ultimo aspetto: ovvero quello per cui il vizio di ammissibilità derivi da un atto della stessa Corte costituzionale (la sentenza n. 192). Se dal punto di vista formale, ovviamente, nulla quaestio, dal punto di vista dei rapporti sostanziali la questione non appare così banale: nel momento in cui un quesito referendario diviene inammissibile a causa di una previa, specifica, decisione della stessa Corte, il corto-circuito competenziale appare lampante e, in via di fatto, i poteri della Corte sembrano estendersi ancora di più [13]. In tal senso, il rispetto delle valutazioni della Cassazione avrebbe potuto fungere da bilanciamento (e controllo) tra poteri.
Quis custodiet referendum a ipsis custodibus? Lasciando da parte il merito della decisione, questa appare quindi, in continuità col passato, una domanda che caratterizza i giudizi di ammissibilità. In tal senso apparirebbe sempre di più necessario, per la Consulta, «definire pro futuro un modello chiaro, unico e semplificato di principi cui i promotori possano attenersi» [14] (anche se, stavolta, questi ultimi non hanno particolari responsabilità).
Nella sentenza n. 10 del 2025 non sembra però che la Corte sia andata in questa direzione.
NOTE
[1] Corte di cassazione, Ufficio centrale per il referendum, ordinanza 12 dicembre 2024, n. 13.
[2] Cfr. G. Azzariti, L. Blumetti, A. Francescangeli e L. Mariantoni (a cura di), L’ammissibilità del referendum sull’autonomia differenziata. Atti del convegno del 14 novembre 2024, Associazione “Salviamo la Costituzione”, 7 gen. 2025, p. 7.
[3] Si vedano, ad esempio, gli interventi di B. Pezzini e A. Algostino, in G. Azzariti et al., L’ammissibilità del referendum sull’autonomia differenziata, cit.
[4] Come già rilevato da M. Volpi, Intervento, in Azzariti et al. (a cura di), L’ammissibilità del referendum sull’autonomia differenziata, cit., p. 33.
[5] Cfr. per tutti la ricostruzione di M. C. Amorosi, Per un’analisi critica dell’autonomia differenziata: dai suoi precedenti alle problematiche attuali, «Costituzionalismo.it», n. 2/2024, pp. 63 e ss.
[6] Cfr. ad esempio G. Zagrebelsky, V. Marcenò, Giustizia Costituzionale, vol. II: Oggetti, procedimenti, decisioni, 2a ed., Il Mulino, Bologna, 2018, p. 381.
[7] Corte costituzionale, sent. n. 16 del 1978, § 3 del Considerato in diritto.
[8] G. Zagrebelsky, V. Marcenò, Giustizia Costituzionale, cit., p. 383.
[9] Cfr. gli interventi di A. Algostino, F. Pallante e B. Pezzini in G. Azzariti et al., L’ammissibilità del referendum sull’autonomia differenziata, cit.
[10] S. Ceccanti, Sulla ordinanza della Corte di Cassazione in materia di referendum abrogativo della legge sulla autonomia differenziata, «Astrid Rassegna», n. 18, 2024, p. 2, rileva come la «sentenza di accoglimento parziale della Corte dovrebbe comunque portare, ove si ritenessero confermati gli stessi principi ispiratori, a un quesito tipico da referendum abrogativo parziale, con l’elenco puntuale delle disposizioni da abrogare. Qui invece la Cassazione adotta una tecnica alquanto semplificatrice».
[11] Cfr. A. Poggi, Il referendum sul regionalismo differenziato: i principi, l’attuazione, le Corti e la sovranità popolare, «Federalismi.it», n. 5, 2025, pp. IV-IX.; S. Ceccanti, Caos autonomia. Si riparte da zero, «il Quotidiano del sud», 22 gen. 2025; G. Azzariti, Così la Corte rende vita difficile ai referendum abrogativi, «Il Manifesto», 12 feb. 2025.
[12] Sul punto G. Azzariti, Così la Corte rende vita difficile ai referendum abrogativi, cit.
[13] Cfr. sul punto G. De Minico, Il fil rouge: dalla legittimità costituzionale all’ammissibilità referendaria della l. n. 86/2024, «Osservatorio sulle fonti», n. 3, 2024, p. 153.
[14] G. Azzariti, Corte Costituzionale, serve più chiarezza. E sul regionalismo la sfida è aperta, «il Manifesto», 21 gen. 2025.
Le immagini presenti nell’articolo non appartengono a Voci Costituzionali, ma ai rispettivi autori.
