Il 30 gennaio 2025, l’Assemblea Nazionale del Nicaragua ha approvato una riforma costituzionale che rafforza significativamente il potere del presidente Daniel Ortega e di sua moglie, la vicepresidente Rosario Murillo. Come evidenziato da alcuni attori internazionali, le modifiche introdotte trasformano fortemente il sistema politico del Paese, rafforzando l’influenza dell’esecutivo sugli altri organi dello Stato. Molti osservatori hanno definito questa modifica costituzionale come un ulteriore passo verso l’istituzionalizzazione di una vera e propria “dittatura familiare”.
Tuttavia, tale cambiamento radicale non si pone in un rapporto di estraneità rispetto al passato: nell’ultimo secolo, il Nicaragua è sempre stato un territorio molto delicato dal punto di vista sociale e politico, sia per motivi interni che per via di influenze di Stati esterni. Difatti, il Nicaragua ha vissuto profonde trasformazioni politiche nel corso del XX e XXI secolo. Dalla rivoluzione sandinista del 1979 alla recente riforma costituzionale del 2025, il paese ha attraversato periodi di dittatura, guerra civile, democratizzazione e ritorno all’autoritarismo.
La nostra analisi si pone l’obiettivo preliminare di ripercorrere l’evoluzione politica del Nicaragua, analizzando le tappe fondamentali che hanno portato il Paese alla situazione attuale sotto il governo del presidente Daniel Ortega, al fine di meglio comprendere come sta cambiando il tessuto costituzionale dello Stato qui in discussione.
La storia politica del Nicaragua nel XX secolo è stata segnata dall’occupazione statunitense (1912-1933) e dalla successiva dittatura della famiglia Somoza, che ha governato il Paese – in via non del tutto continuativa – dal 1937 al 1979 con il sostegno degli stessi Stati Uniti. La dinastia Somoza controllava il Nicaragua attraverso un sistema di corruzione e repressione, con la Guardia Nazionale come strumento principale per mantenere il potere.
Per questi motivi, a cavallo degli anni ’60 e ’70, il malcontento popolare crebbe, alimentato dalle disuguaglianze sociali, dalla povertà diffusa e dalla repressione politica. In questo contesto emerse il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN), un movimento ispirato alla figura storica di Augusto César Sandino, il leader della resistenza contro l’occupazione statunitense negli anni ’20 e ’30.
Dopo anni di guerriglia e tumulti, il 19 luglio 1979 il FSLN riuscì a rovesciare il regime di Anastasio Somoza Debayle, l’ultimo della dinastia. La rivoluzione sandinista segnò una svolta storica per il Nicaragua: per la prima volta il paese intraprese un esperimento di governo socialista (seguendo le orme di tanti altri Stati dell’America latina dell’epoca), con riforme economiche e sociali mirate alla ridistribuzione della ricchezza e alla riduzione delle disuguaglianze.
Dopo la vittoria, il FSLN, guidato dallo stesso Daniel Ortega, assunse il controllo del governo e avviò una serie di riforme: nazionalizzazione delle industrie, riforma agraria, alfabetizzazione di massa e potenziamento dei servizi sanitari. Tuttavia, queste trasformazioni avvennero in un contesto di forte ostilità internazionale, in particolare da parte degli Stati Uniti, che vedevano il sandinismo come una nuova minaccia comunista nel quadro della Guerra Fredda. All’inizio degli anni ’80, l’amministrazione statunitense di Ronald Reagan finanziò e addestrò i c.d. Contras, un gruppo paramilitare di opposizione armata al governo sandinista. La guerra civile che ne seguì fu devastante: decine di migliaia di nicaraguensi morirono e il paese subì un collasso economico a causa del conflitto e del contestuale embargo economico imposto dagli Stati Uniti.
Nel 1984, il Nicaragua tenne le sue prime elezioni democratiche sotto il governo sandinista. Ortega, che per cinque anni aveva detenuto il potere come “Coordinatore della Giunta di Ricostruzione Nazionale”, vinse con il 67% dei voti, ma la guerra continuò fino al 1990, quando il FSLN accettò di tenere nuove elezioni sotto la mediazione internazionale.
Le elezioni del 1990 segnarono una svolta storica: Violeta Chamorro, candidata dell’Unione Nazionale di Opposizione (UNO), sconfisse Ortega. La sua vittoria mise fine alla guerra civile e portò a un governo orientato verso il neoliberismo e la ricostruzione economica.
Negli anni successivi, Chamorro e i suoi successori – Arnoldo Alemán (1997-2002) ed Enrique Bolaños (2002-2007) – implementarono politiche di privatizzazione, riduzione del ruolo dello Stato e apertura ai mercati internazionali. Sebbene queste misure abbiano contribuito a stabilizzare l’economia, aumentarono anche la disuguaglianza sociale e la povertà.
Durante questo periodo, il FSLN si riorganizzò come partito di opposizione, mentre Ortega mantenne il controllo del movimento. Così, nel 2006, Daniel Ortega vinse nuovamente le elezioni presidenziali, tornando al potere dopo 17 anni di opposizione. Tuttavia, il suo governo si presentò in una veste diversa rispetto agli anni ’80: stavolta, Ortega adottò una presunta politica basata sul “socialismo cristiano, solidarietà e economia mista”, combinando programmi sociali con alleanze con il settore privato.
Uno dei fattori chiave del suo successo fu il sostegno economico del Venezuela, che, sotto Hugo Chávez, fornì ingenti finanziamenti al Nicaragua attraverso l’Alleanza Bolivariana per le Americhe (ALBA). Grazie a questi fondi, Ortega poté lanciare programmi sociali che rafforzarono la sua popolarità tra le classi popolari.
Tuttavia, nel corso degli anni, a dispetto delle premesse, il governo di Ortega ha iniziato a mostrare tendenze sempre più autoritarie: infatti, nel tempo, si sono avvicendate riforme costituzionali che hanno permesso alla maggioranza esistente di controllare il sistema elettorale, tale da garantire al FSLN il dominio nelle elezioni successive e la rielezione a tempo indefinito del presidente. A ciò si è aggiunta una sistemica repressione dell’opposizione, con arresti di dissidenti e limitazioni alla libertà di stampa.
Le elezioni del 2011 e del 2016 hanno visto Ortega riconfermato con maggioranze schiaccianti, ma con accuse di brogli e manipolazione elettorale. Per questi motivi, nel 2018, il Nicaragua è stato scosso da una serie di proteste antigovernative scatenate da una significativa riforma del sistema pensionistico. Dopo la remissione delle nuove misure sulla previdenza sociale, tuttavia, le manifestazioni si sono trasformate rapidamente in una contestazione più ampia contro il regime di Ortega, con migliaia di persone scese in piazza per chiedere le sue dimissioni. Questo movimento portò ad una dura reazione del governo, che culminò in veri e propri massacri delle folli manifestanti, come quello del Día de las Madres, il 30 maggio 2018. In quel giorno si ebbero quasi 200 feriti e ben 15 morti.
Da allora, il governo di Ortega ha continuato a reprimere qualsiasi forma di opposizione, arrestando leader politici, giornalisti e attivisti per i diritti umani, fino ad arrivare al cambiamento costituzionale di qualche giorno fa con cui il legislatore nicaraguense ha riformato la Costituzione del Nicaragua quasi nella sua interezza, modificando ben 148 articoli su 198.

Il cuore della riforma risiede nella modifica dell’articolo 132 della Carta Costituzionale che, così come riformato, attribuisce al Presidente della Repubblica il coordinamento del ramo legislativo, giudiziario, elettorale, nonché il controllo delle regioni e dei municipi. Inoltre, in virtù della stessa norma, la Presidenza della Repubblica è posta a capo non solo dell’Esercito del Nicaragua, ma anche del Ministero degli Interni e della Polizia Nazionale.
Già da tale previsione è evidente l’intento di centralizzare i poteri nelle mani del ramo Esecutivo che, con l’attuale configurazione, assume un ruolo spiccatamente autoritario.
La seconda novità introdotta dalla riforma che ben si lega al piano autocratico di Ortega è l’istituzione di una diarchìa, tramite l’introduzione di una co-presidenza. Infatti, il riformato articolo 133 prevede che la Presidenza della Repubblica venga costituita da due Co-Presidenti entrambi detentori in parti uguali del potere presidenziale, eletti a maggioranza assoluta a suffragio universale, libero e diretto.
Da notare che il testo riformato dell’articolo 133 si riferisce ad un Co-Presidente ed una Co-Presidente (Co-Presidenta). Sebbene sotto tale profilo la riforma possa sembrare rispettosa della parità di genere, prevedendo, per l’appunto, che la carica presidenziale venga condivisa da un uomo ed una donna, altra è la ratio della disposizione. Difatti, la norma intende conferire automaticamente alla vice-presidente Rosario Murillo la carica di co-presidente, senza però, che questa sia stata effettivamente eletta tale nelle precedenti elezioni presidenziali, tramite suffragio universale, libero e diretto, come previsto dallo stesso articolo 133. È evidente, quindi, che la previsione in esame sia stata costruita ad hoc per servire gli interessi di Ortega e di sua moglie Rosario Murillo. Tanto è più vero se si considera che, grazie al riformato articolo 135, l’attuale mandato presidenziale è stato esteso da cinque a sei anni.
In terzo luogo, si osserva che la riforma in esame all’articolo 136 stabilisce che la Presidenza della Repubblica sia l’unico organo abilitato a proporre candidati alla Corte Suprema di Giustizia, a nominare i vicepresidenti e a porre il veto su tutti o parte dei progetti di legge.
Con l’intento di centralizzare ancor di più i poteri nelle mani dell’Esecutivo, sulla stessa linea d’onda, il nuovo testo dell’articolo 137 ha attributo ai due co-presidenti anche il potere non solo di nominare un qualsiasi numero di vice-presidenti senza che questi vengano scelti dal voto popolare, ma anche il potere di nominare e revocare i ministri e i viceministri, il procuratore generale e il viceprocuratore generale della Repubblica, i direttori delle entità autonome e governative, i capi delle missioni diplomatiche e i capi delle missioni speciali.
Per rafforzare maggiormente il potere presidenziale, ed in particolare il controllo e la sorveglianza sui cittadini, l’articolo 92-ter ha costituito le forze militari patriottiche di riserva, come parte dell’Esercito del Nicaragua, che saranno composte volontariamente da ufficiali, funzionari, sottufficiali, graduati, soldati e marinai che sono passati alla condizione onorevole di pensionamento o di congedo. Con simile finalità, l’articolo 97 ha istituito invece una forza di polizia volontaria come ausiliario e di supporto alla Polizia Nazionale, composta da cittadini nicaraguensi che prestano i loro servizi su base volontaria.
Contrariamente a quanto sarebbe accaduto in un normale stato di diritto, la riforma è entrata immediatamente in vigore, senza attendere il termine dell’attuale mandato presidenziale che sarebbe dovuto terminare nel 2027.
È, quindi, chiara la connotazione marcatamente autoritaria del nuovo testo costituzionale che, rimuovendo di fatto la separazione dei poteri e snaturando, così, i principi fondanti la Rule of Law, ha assoggettato, tra gli altri, il ramo legislativo e giudiziario al cospetto del potere Esecutivo ora condiviso dai coniugi Ortega e Murillo.
Alla luce di quanto detto sino ad ora, è possibile affermare che la riforma – peraltro proposta dallo stesso Ortega – altro non è che espressione di quello che in dottrina è stato efficacemente definito legalismo autocratico (autocratic legalism), ossia l’utilizzo di metodi legali per sovvertire lo stato di diritto. In altre parole, con tale espressione – spesso associata all’ascesa al potere di leaders populisti-autoritari – si intende l’adozione di procedure democratiche al fine di attuare agende illiberali e sottomettere le istituzioni democratiche al loro controllo. Tra le pratiche più (ab)usate vi sono, tra le altre, le riforme giudiziarie, le modifiche costituzionali, l’eliminazione dei controlli istituzionali, la centralizzazione del potere nell’esecutivo, la contrazione della sfera pubblica e l’eliminazione degli oppositori politici.
Oltre il recentissimo esempio del Nicaragua, nel corso degli ultimi 15 anni, molteplici sono state le esperienze costituzionali che hanno sperimentato diverse forme di legalismo autocratico che hanno dato vita a forme di costituzionalismo illiberale. Ad esempio, in Polonia, le riforme costituzionali succedutesi tra il 2015 e il 2020, parte del piano autoritario di Mateusz Morawiecki e del partito al governo Diritto e giustizia (Prawo i Sprawiedliwość, PiS) avevano, tra le altre cose, abbassato l’età pensionabile dei giudici costituzionali e, contestualmente, avevano posto dei limiti alla giurisdizione del Tribunale costituzionale. Analogamente, in Ungheria, il partito di Orban al tempo al governo aveva modificato, tra le altre cose, il funzionamento della Corte costituzionale, limitando i meccanismi di accesso alla Corte stessa.
Ebbene, nonostante le esperienze polacche ed ungheresi siano state d’esempio per le democrazie di tutto il mondo, il trend populista ed autoritario continua ad avanzare, con non poche preoccupazioni da parte di tutta la società civile. A tal riguardo, preme evidenziare che, come sopra anticipato, la riforma di Ortega ha generato un acceso dibattito nel panorama internazionale. Ad esempio, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (UNHCR), già in fase di approvazione preliminare del testo nel novembre 2024, aveva affermato che la riforma costituzionale approvata “viola gli obblighi internazionali assunti dal Nicaragua” e pertanto esortava lo Stato a rivederla per garantire la separazione dei poteri, il pluralismo politico e le libertà fondamentali, in linea con gli impegni internazionali assunti dal Paese.
In conclusione, il governo nicaraguense sostiene che il testo costituzionale così riformato rafforza la democrazia diretta. Ma, se per definizione la democrazia è tenuta in vita da un costante equilibrio bilanciamento tra i vari poteri dello stato, ove tale equilibrio venga distorto e piegato a favore di uno dei poteri dello stato, è evidente che non si può più parlare di democrazia. Purtroppo, alla luce della precedente storia istituzionale del paese, era facilmente prevedibile un ritorno all’autoritarismo. La recente riforma costituzionale rappresenta, a nostro avviso, solo la punta dell’iceberg di un progetto autocratico molto più ampio, iniziato già con l’ascesa al potere di Ortega, risultato, a sua volta, di una deriva autoritaria del paese a cui, in realtà, non si è mai davvero posto fine.
Matteo Paolanti
Dottorando in Diritto costituzionale comparato presso l’Università degli studi di Siena
Francesco Saccoliti
Dottorando in Global Justice: Institutions, Rights and Democracy presso l’Università degli studi di Macerata; LL.M. in Human Rights and Criminal Procedure presso Rijksuniversiteit Groningen
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