Sulla scia delle interviste di approfondimento sulla recente introduzione dell’interruzione volontaria di gravidanza nella Costituzione francese, abbiamo chiesto alla Professoressa Anna Maria Lecis Cocco Ortu, Professoressa associata di Diritto pubblico dell’Università Sciences Po Bordeaux dove insegna Diritto costituzionale francese e comparato, Istituzioni politiche e amministrative e Costituzione e genere, di approfondire alcuni profili problematici della riforma.
Intervista a cura di Chiara Cerbone, Assegnista di Ricerca in Diritto pubblico comparato – Università degli Studi di Parma.
Il 4 marzo 2024 il Parlamento francese – in seduta comune – ha costituzionalizzato la libertà/diritto all’aborto rendendo la Francia il primo paese al mondo a tutelare tale diritto. Quali erano le leggi sull’aborto in Francia prima dell’introduzione di tale revisione costituzionale?
La costituzionalizzazione della libertà di abortire – a cinquant’anni dal processo di Bobigny e ottantuno anni dopo l’esecuzione di Marie-Louise Giraud, ghigliottinata nel 1943 per aver compiuto 27 aborti – giunge a coronare una progressiva liberalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza iniziata nel 1975 con la famosa legge Veil. Sebbene la sanzione della pena capitale, applicata sotto il regime di Vichy, sia stata abolita all’indomani della liberazione, l’aborto volontario è rimasto un reato penalmente perseguibile ai sensi dell’articolo 317 del codice penale fino all’approvazione della legge del 1975 presentata e fortemente difesa dall’allora ministra della salute Simone Veil.
Da allora, una decina di interventi normativi hanno progressivamente esteso l’accesso all’aborto e ne hanno rafforzato le garanzie: dapprima la perennizzazione, nel 1979, della legalizzazione dell’IVG introdotta in via sperimentale 4 anni prima; in seguito, nel 1982, il rimborso da parte del sistema sanitario (dapprima parziale, divenuto poi totale dal 2012 e esteso a tutti gli atti accessori all’IVG nel 2016); ancora, nel 1993, l’introduzione di un reato di “ostacolo all’IVG” (poi esteso ai siti internet di propaganda antiabortiva nel 2017); l’estensione del termine legale per l’esecuzione dell’interruzione volontaria, portato da 10 a 12 settimane nel 2001 (poi a 14 nel 2022); l’abrogazione della condizione di “disagio”, nel 2014, che subordina dunque l’accesso all’IVG alla sola autodeterminazione della donna; l’abrogazione del termine di riflessione di una settimana tra la decisione e l’intervento, nel 2016; nello stesso anno, l’abilitazione degli ostetrici a compiere dapprima aborti farmacologici, quindi anche chirurgici. L’ultimo tassello, in ordine cronologico, è costituito dalla legge del 2022 con la quale si è esteso il termine per l’IVG farmaceutica da 5 a 7 settimane, e per quella chirurgica da 12 a 14, al termine di un dibattito piuttosto accesso che aveva portato in particolare allo stralcio della disposizione avente ad oggetto la soppressione dell’obiezione di coscienza specificamente riservata all’aborto.
Il percorso della legalizzazione dell’aborto in Francia è pertanto caratterizzato da un’evoluzione lineare che è andata nel senso di un progressivo rafforzamento. È questo uno degli argomenti, come vedremo, invocati da una parte della dottrina e del mondo politico per contestare la necessità e l’utilità della sua costituzionalizzazione.
La decisione di promuovere una riforma costituzionale deriva dal dibattito, della dottrina quanto della classe politica, affermatosi in Francia all’indomani della decisione la decisione Dobbs v. Jackson Women’s Health Organisation, con cui la Corte Suprema degli Stati Uniti il 24 giugno 2022 ha sancito l’overruling della storica decisione Roe v. Wade del 1973, decostituzionalizzando il diritto all’aborto. Pensa che ci sia stata una strumentalizzazione, quantomeno da parte di alcune fazioni politiche, di tale azione a tutela dell’aborto?
Il dibattito sull’iscrizione del diritto all’aborto all’interno del testo costituzionale si è effettivamente riaperto all’indomani della sentenza Dobbs del 24 giugno 2022, con nove proposte di legge presentate alle camere francesi tra giugno e ottobre 2022, seguite poi dal disegno di legge del governo. La forte eco prodotta dalla sentenza della Corte suprema americana ha perciò indubbiamente costituito una “policy window”, secondo l’espressione di John Kingdon, in quanto ha permesso di riaccendere un dibattito già da tempo esistente, ma che non era mai arrivato ad un punto di maturazione tale da essere iscritto in agenda. La grande attenzione rivolta all’esperienza americana, combinata alla larga copertura mediatica riservatale, ha fatto sì che una battaglia portata avanti fino a quel momento da minoranze parlamentari e da una parte del mondo associativo si imponesse al centro del dibattito polarizzando quest’ultimo (secondo una deriva alla quale siamo fin troppo abituati nell’agone politico contemporaneo). Mentre il parlamento era quindi fortemente diviso, i sondaggi registravano invece un altissimo consenso dei cittadini e delle cittadine in favore della riforma. In questo contesto, la scelta del Presidente Macron di spendersi in prima persona per l’approvazione della revisione costituzionale può senz’altro essere vista come una maniera di ottenere un importante risultato politico dopo aver più volte dichiarato di voler consacrare il suo mandato “alla causa femminile”, con risultati fino a quel momento piuttosto modesti. L’approvazione del disegno di legge costituzionale gli ha inoltre permesso di apporre la sua firma su un’importante revisione della Costituzione, dopo i fallimenti dei precedenti tentativi di riforma. Senza parlare di vera e propria strumentalizzazione da parte degli uni o degli altri, direi piuttosto che la sentenza Dobbs e il dibattito che ne è seguito hanno permesso a diverse parti politiche di intestarsi un importante successo politico forti di un ampio consenso popolare. Al di là degli evidenti risvolti simbolici e politici, tuttavia, sarebbe sbagliato ridurre tale riforma ad una mera mossa politica priva di effettività giuridica, un “coup de com” come dicono i francesi, per quanto la dottrina sia divisa sulla sua portata.
Alcuni commentatori hanno fortemente criticato la riforma ritenendo che fosse meramente simbolica. Ritiene che sia più forte la portata simbolica di tale disposizione piuttosto che la (presumibile) garanzia che ne discende? Rispetto alla risposta data: ritiene che faccia compiere dei passi in avanti rispetto all’effettiva tutela di tale diritto.
Già all’interno del Parlamento, nel momento in cui la discussione sulle proposte di legge avanzava e queste venivano sostituite dal disegno di legge, si osservava una contrapposizione tra voci favorevoli alla riforma e voci contrarie non perché contestassero (quantomeno non apertamente) il carattere fondamentale della libertà di abortire, ma perché ritenevano la sua iscrizione nella Costituzione inutile in quanto puramente simbolica. Questa posizione, dapprima molto diffusa soprattutto nei ranghi della destra prima di diventare minoritaria il 4 marzo, era ben riassunta nelle parole del presidente del Senato Gerard Larcher, esponente dei Repubblicani, il quale affermava che “una costituzione non deve diventare un ricettacolo di diritti sociali e di questioni di società”. Così anche fuori dall’emiciclo, tra le pagine dei quotidiani o su blog e riviste specializzate, un certo numero di costituzionalisti si è espresso contro una riforma ritenuta inutile e inopportuna, ammonendo sul rischio di aprire la strada a revisioni puramente simboliche che niente avrebbero a che vedere coi principi fondamentali dell’ordinamento giuridico.
Ora, l’elevata portata simbolica di questa riforma è innegabile: in un momento storico in cui l’accesso all’aborto, dopo aver fatto dei passi in avanti in numerosi paesi negli ultimi 50 anni, diventa oggetto di restrizioni in diversi ordinamenti, la Francia proclama il suo attaccamento a questa libertà e la eleva al rango dei diritti e delle libertà fondamentali del suo patto sociale. Contrariamente alle riserve espresse da molti commentatori, ritengo che già questa finalità simbolica sia sufficiente per dare fondamento ad una revisione costituzionale, in quanto una Costituzione, oltre ad essere un testo giuridico, è anche un proclama politico su cui si fonda il patto sociale, nel quale una società iscrive i principi nei quali essa si identifica. Attraverso l’iscrizione nel testo costituzionale, tali principi vengono così elevati al più alto rango della protezione giuridica, sottraendoli alla disponibilità delle semplici maggioranze. Al di là del valore simbolico, la riforma assume pertanto una concreta finalità giuridica che è quella di proteggere la libertà di aborto da eventuali attacchi da parte di future maggioranze politiche.
Da questo punto di vista però, secondo le voci critiche, la riforma sarebbe poco utile, in quanto, da un lato, il diritto all’aborto non sarebbe seriamente minacciato nell’ordinamento francese e, dall’altro, neanche questa revisione lo metterebbe al riparo da eventuali limitazioni legislative, poiché fa salva la competenza del legislatore nel disciplinare “le condizioni alle quali si esercita la libertà garantita alla donna di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza”.
Quanto al primo punto, se è vero che una completa abrogazione del diritto di accesso all’aborto sembra oggi inimmaginabile nell’ordinamento francese, la garanzia di tale diritto riposava fino ad oggi unicamente su una base legislativa. Com’è stato ricordato nel corso della discussione, sebbene in parlamento siano pochissime le voci che contestino apertamente la legge Veil (dei 72 parlamentari che hanno votato contro la revisione costituzionale, nessuno ha esplicitamente espresso la volontà di rimettere in discussione le attuali garanzie legislative), fuori dagli emicicli parlamentari non mancano, invece, le contestazioni da parte di esponenti politici, di associazioni e movimenti pro-vita nei confronti dell’attuale legislazione ritenuta troppo liberale, in particolare dopo l’estensione del termine a 14 settimane. In un tale contesto, niente garantisce che una maggioranza politica sfavorevole alla libertà di aborto possa un domani voler apportare delle limitazioni significative alla legislazione attuale; limitazioni che, ad oggi, non avrebbero incontrato alcun ostacolo costituzionale, poiché la giurisprudenza costituzionale non proteggeva esplicitamente la libertà di abortire.
Di fatti, sebbene nell’emiciclo sia stato ripetutamente sostenuto che la libertà di aborto goda già di garanzia costituzionale in via giurisprudenziale, il Consiglio costituzionale si è invero limitato a giudicare costituzionalmente conforme il bilanciamento operato dal legislatore tra “la salvaguardia della dignità della persona umana […] e la libertà della donna che deriva dall’articolo 2 della Dichiarazione del 1789” (si vedano ad esempio le decisioni n° 2001-446 DC, n° 2014-700 DC e n° 2015-727 DC). Da queste decisioni emerge che, per il giudice costituzionale, il diritto all’aborto così come legalizzato dal legislatore costituisce una forma di attuazione della libertà della donna costituzionalmente conforme, ma non costituzionalmente necessaria. Ne deriva che anche una conciliazione differente, molto più favorevole alla tutela del nascituro o ad altri obiettivi di interesse generale a discapito dell’autodeterminazione della donna, avrebbe potuto superare il vaglio di costituzionalità. In occasione del controllo della legge che ha esteso il reato di ostacolo all’aborto, poi, il Consiglio si è riferito esplicitamente al diritto all’aborto, affermando che “nell’adottare le disposizioni contestate, il legislatore ha inteso prevenire le violazioni che possono essere apportate al diritto di ricorrere ad un interruzione volontaria di gravidanza” (dec. n° 2017-747 DC). Il bene costituzionale qui oggetto di bilanciamento con la libertà di espressione, tuttavia, non è il diritto all’aborto di per sé, ma piuttosto l’obiettivo costituzionalmente legittimo del legislatore di porre in essere garanzie legali a protezione di un diritto beneficiante a sua volta di un fondamento legale.
Certo, si può ipotizzare che, sulla base di questa giurisprudenza che riconosce nella “libertà della donna” il fondamento costituzionale della legalizzazione dell’accesso all’aborto, il giudice costituzionale avrebbe già potuto dichiarare incostituzionale una legge eccessivamente lesiva di quella “libertà” così genericamente formulata (riconoscendo così, mutatis mutandis, un “contenuto costituzionalmente vincolato” della legislazione sull’aborto così come consacrato dalla giurisprudenza costituzionale italiana). Ma niente permette di affermarlo con certezza e, anzi, l’approccio di deferenza nei confronti del legislatore tradizionalmente adottato dal giudice costituzionale francese specialmente sulle questioni etiche può anche condurre alla conclusione opposta, secondo la quale anche un bilanciamento meno favorevole alla libertà della donna avrebbe potuto essere considerato costituzionalmente conforme, ove opportunamente giustificato.
Ci si può tuttavia domandare se, nei termini in cui è stata approvata, la revisione cambi davvero il quadro normativo di riferimento e sia pertanto in grado di garantire il diritto all’aborto contro qualunque tipo di restrizione.
Chi ne denuncia la portata più cosmetica che normativa ritiene di no, in quanto viene confermata ed anzi costituzionalizzata la competenza del legislatore a dettare le condizioni, e quindi i limiti, entro i quali si esercita la libertà di abortire. Tale libertà, tuttavia, ed è qui che al legislatore si pongono a sua volta dei limiti, deve essere garantita alla donna. Mentre il dibattito politico si è focalizzato sulla differenza tra i termini “diritto” e “libertà”, che è invero irrilevante ai fini della protezione costituzionale, è proprio il riferimento alla garanzia, sparito nel testo approvato al Senato e riapparso nel progetto di legge presidenziale, a fare la differenza. Imponendo al legislatore l’obbligo di garantire la libertà di abortire, esso può costituire il fondamento per dichiarare incostituzionale qualunque riforma abbia per effetto una restrizione del diritto all’aborto così come attualmente previsto nell’ordinamento francese, come una sorta di clausola di non regressione implicitamente formulata, secondo le intenzioni degli iniziatori della riforma. La portata effettiva della norma dipenderà ovviamente dall’interpretazione che il Consiglio costituzionale darà a tale termine, che costituisce il cuore della disposizione.
Nessun enunciato può eliminare completamente il margine di discrezionalità di cui gode l’interprete, in particolare per quanto riguarda la scelta dei criteri ermeneutici utilizzabili in sede di giudizio di costituzionalità. Le scelte redazionali possono tuttavia limitare i possibili significati attribuibili alla disposizione, orientando il risultato dell’operazione ermeneutica, quale che sia la tecnica mobilizzata. Nel caso specifico, che si adotti un’interpretazione letterale del termine “garantita”, o che si adotti un’interpretazione teleologica ispirata alla finalità della riforma e al criterio dell’effet utile, al fine di attribuire una portata normativa effettiva ad un testo che altrimenti ne sarebbe privo, o che si prenda in conto l’original intent degli autori della riforma (nonostante le reticenze sulla consacrazione di un diritto, come ricordato, nessuno dei parlamentari ha esplicitamente espresso la volontà di permettere al legislatore di apportare delle restrizioni all’attuale disciplina), la formulazione della disposizione “massimizza le possibilità che, in un eventuale contenzioso, il Consiglio costituzionale censuri qualunque intervento legislativo volto a rimettere in discussione il diritto esistente”[1].
Ritengo tuttavia che, a prescindere da quella che sarà l’intensità della garanzia effettivamente accordata alla libertà di abortire secondo l’interpretazione del giudice costituzionale, non vi è dubbio che questa riforma consacri un diritto che impone al legislatore un obbligo positivo di garanzia. Questo non significa che il diritto all’aborto diventi un diritto assoluto o tiranno, dovendosi esso sempre conciliare con gli altri interessi costituzionalmente rilevanti, secondo quello che è stato definito il “modello gradualistico europeo” o “modello concorrente”, che permette al legislatore di fissare le “condizioni alle quali si esercita” tale diritto. All’interno di questo modello gradualistico, però, la costituzionalizzazione interviene a cristallizzare nell’ordinamento quegli standard acquisiti di tutela su cui il patto sociale non intende tornare indietro. Fra questi, rientrano senz’altro, a mio avviso, la piena autodeterminazione della donna – che caratterizza il modello francese distinguendolo da modelli paternalistici che subordinano l’aborto alla constatazione di determinate condizioni da parte di terzi – e la garanzia d’accesso da parte dello Stato, che deve mettere ogni donna nelle stesse condizioni di libera scelta.
[1] Così S. Hennette-Vauchez, Raisons et déraison dans l’interprétation de la Constitution, in Jus Politicum Blog, 14/3/2023.
Quali sono i prossimi passi per “attuare” tale riforma? Ritiene sia necessario affiancare alla nuova tutela “formale”, politiche che possano effettivamente garantire tale diritto/libertà?
Come dicevo, per quanto la maggioranza senatoriale si sia espressa contro l’idea di un “diritto esigibile e opponibile allo Stato”, preferendo a tal fine il termine “libertà” che – secondo i senatori – di quel carattere di esigibilità sarebbe privo, la disposizione adottata mi sembra indubbiamente istituire un obbligo positivo a carico del legislatore che è chiamato a “garantire” l’esercizio della libertà di abortire. Solo l’effettiva prassi interpretativa potrà dirci se questa formulazione sarà interpretata al fine di preservare il diritto all’aborto così come attualmente disciplinato o se potrà addirittura condurre ad un rafforzamento delle attuali garanzie. Vi è chi ha espresso il timore, ad esempio, di vedere messa in discussione l’obiezione di coscienza del personale sanitario, che non gode di specifica protezione costituzionale e la cui garanzia potrebbe soccombere in un bilanciamento con la libertà costituzionale di nuova consacrazione. Tuttavia, per quanto sia possibile che, in parlamento o all’interno della società civile, la nuova disposizione costituzionale venga invocata a tal fine, tale esito mi sembra ad oggi piuttosto improbabile. Il parlamento ha respinto ancora nel 2022 una disposizione che mirava ad abolire l’obiezione di coscienza specifica all’aborto e, in sede di giudizio costituzionale, un litigio strategico che puntasse a far dichiarare le disposizioni sull’obiezione di coscienza contrarie al nuovo articolo 34 Cost. rischierebbe di sortire l’effetto contrario, offrendo l’occasione al Conseil constitutionnel per riconoscere un’analoga protezione costituzionale agli operatori sanitari che non vogliano eseguire un aborto.
D’altro canto, guardando piuttosto all’effettività del diritto così come attualmente riconosciuto dal punto di vista formale, questa revisione invita sicuramente a prendere sul serio l’obbligo dello Stato di garantirne l’esercizio e l’accesso in condizioni di uguaglianza quale che sia la zona di residenza, l’età, il contesto sociale della persona interessata. A tal proposito, sebbene le cifre sulle difficoltà di accesso all’aborto siano piuttosto confortanti se paragonate alla (disastrosa) situazione italiana, meritano attenzione i dati sulle disparità territoriali e sociali nell’esercizio di tale diritto (si veda il Rapport d’information parlementaire, 2020).
La Francia è stata il primo paese al mondo a costituzionalizzare il diritto ad interrompere volontariamente una gravidanza. Pensa che l’esempio francese potrà condurre all’adozione di simili disposizioni anche in altri paesi europei? (eventuali e possibili riferimenti anche al contesto italiano.
Uno degli obiettivi esplicitamente rivendicati dal legislatore costituente francese è proprio quello di porsi come un faro per altri ordinamenti nel mondo, in un momento in cui si assiste a significative marce indietro in tema di accesso all’aborto in paesi come la Polonia, l’Ungheria e, naturalmente, gli Stati Uniti. Nella relazione che accompagna il disegno di legge si fa infatti riferimento alle posizioni antiabortiste che si fanno strada in Europa e, soprattutto, viene citato esplicitamente l’overruling di Roe v. Wade da parte della Corte suprema degli Stati Uniti, che avrebbe mostrato come “i diritti e le libertà che ci sono più preziosi possono essere rimessi in discussione anche quando sembrano saldamente acquisiti” e che pertanto la Francia, “fedele alla sua vocazione” deve sostenere “la battaglia universale per questa libertà fondamentale, nel nostro continente come ovunque nel mondo”.
Se è vero che la Francia non è il primo paese a introdurre un riferimento all’aborto nella propria Costituzione, in nessun altro paese si ritrova una garanzia del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza esplicitamente formulata a livello costituzionale (un tentativo era stato fatto all’art. 61 del progetto di Costituzione cilena del 2022, respinto dal referendum popolare dello stesso anno). Vi sono invece costituzioni che menzionano l’interruzione di gravidanza, ma più per consentirne la legalizzazione entro certi limiti che per elevarla a diritto costituzionale, ovvero costituzioni che riconoscono in maniera più generica i “diritti della sfera riproduttiva”. Tra le prime, si può ricordare il XXXVI emendamento della Costituzione irlandese, adottato nel 2018 per consentire l’adozione di una legge in materia di aborto cui fino ad allora ostava la protezione della vita del nascituro iscritta nell’VIII emendamento; o ancora la Costituzione del Kenya che, dopo aver sancito il diritto alla “salute riproduttiva”, menziona esplicitamente l’aborto per fissarne i limiti, precisando che esso è possibile solo quando “in the opinion of a trained health professional there is need for emergency treatment, or the life or health of the mother is in danger”. Tra le seconde, si possono ricordare, oltre alla citata disposizione della costituzione kenyota, le costituzioni dei paesi dell’ex-Jugoslavia che, sul modello della costituzione jugoslava del 1974, tutelano il “diritto alla pianificazione familiare” (si veda in particolare l’art. 55 della Costituzione slovena, che sancisce “il diritto di decidere se avere un figlio”), o ancora le costituzioni del Sudafrica o del Nepal, che garantiscono l’accesso alla “salute riproduttiva”.
Fatta eccezione per questi ultimi due esempi, dove le disposizioni costituzionali in materia di salute riproduttiva sono state interpretate dalle rispettive corti supreme quale fondamento di un diritto costituzionale all’aborto (Corte suprema sudafricana, 1998; Corte suprema del Nepal, 2009), negli altri ordinamenti la previsione costituzionale assolve più una funzione di riserva di legge (così in Irlanda, Paraguay, Slovenia) se non addirittura di limitazione delle condizioni di accesso all’aborto (come in Zimbabwe o in Kenya, anche se qui le corti stanno aprendo qualche spiraglio per una più ampia legalizzazione).
Con questa riforma, la Francia si fa dunque pioniera e ambisce a fare da apripista di una nuova stagione di costituzionalizzazione del diritto all’aborto. Ed infatti, la riforma francese ha già avuto una forte risonanza e innescato une serie di rivendicazioni anche oltre i confini. Sul versante delle istituzioni europee, poche settimane dopo la revisione francese, è stata votata, l’11 aprile, la risoluzione del Parlamento europeo che invita il Consiglio europeo ad avviare le procedure di revisione dei trattati per inserire nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE l’assistenza sanitaria sessuale e riproduttiva e il diritto a un aborto sicuro e legale. Nelle stesse settimane, è anche iniziata la procedura per la presentazione di una petizione alla Commissione europea per richiedere l’istituzione di un fondo volto a finanziare l’accesso all’aborto all’interno di un altro paese europeo per le persone residenti in paesi nei quali l’accesso è ristretto. Intitolata “My voice, my choice: for safe and accessible abortion”, l’iniziativa ha già raccolto oltre 500000 firme nei primi 4 mesi e dovrà raggiungere la soglia di un milione di firme provenienti da almeno 7 paesi (nel rispetto della soglia minima fissata per ciascun paese) entro il 24 aprile 2025.
Sul fronte degli ordinamenti nazionali, tuttavia, un effetto domino sembra più difficile. La riforma francese ha innescato o ravvivato il dibattito in altri paesi, come l’Italia o la Spagna (dove peraltro di recente il Tribunale costituzionale ha dichiarato conforme alla Costituzione la legge che permette l’accesso all’aborto alle minorenni di più di sedici anni senza il consenso dei genitori), mostrando che è possibile andare in questa direzione e proteggere il diritto all’aborto da possibili minacce da parte di maggioranze politiche, consacrandolo come diritto fondamentale costituzionalmente garantito. Tuttavia, se la comparazione e la circolazione delle soluzioni normative può essere spesso fonte di ispirazione, pensare ad un legal transplant, ad un’emulazione pura e semplice della disposizione francese in contesti culturali e normativi diversi mi sembra piuttosto difficile. In Italia, in particolare, siamo ben lontani dal poter parlare del riconoscimento di un diritto costituzionale all’interruzione volontaria di gravidanza, quando ancora non si riesce a dare applicazione alla legge 194 in gran parte del territorio e quando lo stesso equilibrio promosso da quella legge viene tutt’oggi messo in discussione da diversi esponenti politici. Malgrado le differenze tra i due ordinamenti, il precedente francese però esiste e costituisce un esempio con cui gli altri paesi saranno necessariamente portati a confrontarsi.
Chiara Cerbone
Assegnista di Ricerca in Diritto pubblico comparato – Università degli Studi di Parma
