In occasione della recente pubblicazione per i tipi di Editoriale Scientifica del volume Il Führerprinzip. La scelta del capo a cura di Gaetano Azzariti e Michele Della Morte abbiamo intervistato il Prof. Azzariti, ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università di Roma La Sapienza e Direttore della rivista Costituzionalismo.it, sul delicato rapporto tra legittimazione del “capo” e democrazia. Durante il convegno scientifico tenutosi a Napoli il 28 settembre 2023 sul tema sono emersi numerosi spunti, riveduti e ampliati nel volume, a nostro avviso cruciali per comprendere l’attualità costituzionale.
Muovendo proprio dal termine Führerprinzip, traducibile come “supremazia del capo”, è possibile scorgere un filo conduttore che parte dai timori per il ritorno dell’uomo solo al comando durante i lavori dell’Assemblea Costituente e giunge fino alla progressiva monocratizzazione dell’organo esecutivo. Spesso si confonde l’instabilità dei governi con la presunta debolezza degli stessi, che tuttavia fragili non sono se si pensa, ad esempio, alle costanti ingerenze nell’attività legislativa. Il tentativo, perpetrato da oltre trent’anni, di inseguire il mito della governabilità ad ogni costo sembra essere tornato con prepotenza nell’agenda politica dell’attuale legislatura.
Ritiene che la distinzione di Maurice Duverger tra democrazia immediata e democrazia mediata e quella elaborata da Arend Lijphart tra modello Westminster e modello consensuale sia ancora valida sul piano sia metodologico sia pratico? Ma soprattutto, è ancora possibile restituire centralità all’Assemblea elettiva come sede naturale del compromesso parlamentare?
Partirei dall’ultima sua osservazione che pone la vera questione che dovrebbe essere affrontata oggi nel nostro Paese se si volesse razionalizzare la forma di governo parlamentare. Se in Assemblea Costituente si temeva che la forza dei partiti finisse per fare assumere un carattere troppo assembleare alla forma di governo prescelta (da qui l’o.d.g. Perassi e la richiesta di razionalizzazione del parlamentarismo), oggi la situazione è completamente rivoltata: la perdita di capacità rappresentativa delle formazioni politiche, la loro trasformazione in “partiti dei capi”, la marginalità in cui è stato relegato il Parlamento e la centralità assunta dal Governo fanno temere il dominio dell’esecutivo su ogni altro potere. D’altronde la svolta del ’93 e l’imporsi della cosiddetta “democrazia maggioritaria” hanno favorito questa progressiva marginalità dell’organo della rappresentanza politica.
In realtà abbiamo assistito ad una serie di fallimenti. Se gli obiettivi dichiarati della “svolta maggioritaria” erano quelli della riduzione del numero dei partiti e la maggiore stabilità dei governi, bisogna constare che ciò non si è prodotto. Semmai si è favorito un complessivo indebolimento della democrazia rappresentativa, com’è ormai reso evidente dall’astensionismo elettorale. Vero punto di caduta di una democrazia che si voglia realmente “rappresentativa”.
Ciononostante, non si vuole prendere atto che bisognerebbe chiudere la stagione della governabilità ad ogni costo per aprirne una diversa che ritrovi le ragioni della rappresentanza plurale e la capacità dell’organo parlamentare di porsi come luogo del compromesso politico. Basterebbe in fondo rileggere Kelsen per rendersi conto che non può aversi democrazia senza la primazia del Parlamento. Invece sembra proprio che l’attuale maggioranza parlamentare (penso al pasticciato ddl costituzionale sul cosiddetto premierato) non riesca a discostarsi da una lettura maldigerita del più scolastico schmittismo: la democrazia è solo ricerca di un capo, il Führerprinzip, appunto.
Da sempre la definizione del sistema elettorale ha rappresentato lo strumento più efficace per la scelta di persone e idee mediante il libero esercizio del voto democratico. La riduzione del numero dei parlamentari ha reso ancor più verticistica la selezione della classe dirigente, eludendo qualsiasi forma di partecipazione della collettività organizzata e dei territori nella scelta delle candidature. Com’è possibile – utilizzando l’espressione di Pasquino – «restituire lo scettro al principe»? In che modo il legislatore dovrebbe recepire gli orientamenti giurisprudenziali emersi dalle pronunce costituzionali n. 1 del 2014 e n. 35 del 2017?
La strenua ricerca di una stabilità politica garantita dalla legge che s’è posta al centro della strategia della democrazia maggioritaria cui si faceva già riferimento ha portato a evidenti sbandamenti che alla fine sono stati svelati dalle due sentenze della Consulta richiamate.
Anche in questo caso credo si tratti di fare i conti con la propria storia ed ammettere che per “restituire lo scettro al principe”, o anche più semplicemente lasciare all’elettore un margine di scelta (sent. 1 del 2014), si debba pensare a sistemi elettorali non troppo distorsivi e non bloccati nella composizione delle liste.
Personalmente ho sempre ritenuto che un sistema proporzionale e uninominale (alla stregua della legge n. 29 del 1948, che regolava l’elezione del Senato) sarebbe la soluzione più equilibrata. In ogni caso, al di là della specifica formula, ci si dovrebbe convincere che le elezioni politiche non servono per scegliere il governo (almeno nelle forme di governo parlamentare), bensì i rappresentanti della nazione che operano senza vincoli di mandato. Poi, in Parlamento si sceglierà il Governo che, sulla base degli accordi di maggioranza e del programma politico su cui otterrà la fiducia, definirà un suo proprio indirizzo politico. È il programma che dovrebbe garantire la durata e la stabilità del Governo stesso, non la legge elettorale che dovrebbe invece assicurare la più ampia rappresentanza politica.
Ponendo lo sguardo sull’attualità, con particolare riguardo all’esperienza comparata: la scelta del Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron di sciogliere l’Assemblea Nazionale e di indire nuove elezioni potrebbe determinare, stando alle percentuali di consenso ottenute dai partiti francesi alle ultime consultazioni europee, la cohabitation di un Capo dello Stato e di un Primo ministro appartenenti ad opposti schieramenti. Si tratterebbe del quarto caso di coabitazione nella Cinquième République, dopo la prima convivenza del Presidente socialista François Mitterrand e del Primo ministro neogollista Jacques Chirac nel 1983.
Reputa che il modello semipresidenziale, avanzato in più occasioni e da più parti nel corso del dibattito sulla forma di governo, sia oggi inadeguato per l’Italia?
In realtà a me sembra che in questo periodo tutte le forme di governo conosciute nel mondo occidentale stiano subendo dei traumi. Probabilmente causate da crisi interne agli Stati, ma anche e forse soprattutto dai sommovimenti globali, alcuni di grave segno come sono l’estendersi delle guerre e la fine degli equilibri mondiali.
Certo la Francia è tra questi, l’esperienza Macron non mi sembra sia un modello e l’esito delle elezioni europee in fondo si limitano a certificarlo. È anche vero che il semipresidenzialismo in Francia ha dato buone prove di resistenza: si pensava scritto da un sarto per dare un vestito a De Gaulle, ma poi anche grazie alla cohabitation ha permesso a molti presidenti eletti di scaricare la responsabilità politica sullo schieramento politico avversario (Mitterrand è stato un maestro in questa tecnica di governo). Penso che ora anche Macron sia indotto a provare l’azzardo.
Ma tutto ciò che ha a che fare con l’Italia? Perché copiare sistemi che rischiano il collasso? Non può infatti escludersi che, ove la vittoria in Francia arridesse a partiti estremi, soprattutto nel caso di una netta vittoria di Marine Le Pen e di una forza politica ritenuta sino a ieri antisistema (Rassemblement National), anche gli equilibri sin qui assicurati dal semipresidenzialismo vengano meno.
Personalmente più che copiare la Francia mi limiterei a sperare che oltralpe riescano ad uscire da un’evidente impasse costituzionale, oltre che politica e culturale.
Il crescente e strutturale fenomeno dell’astensionismo elettorale, insieme alla riemersione del populismo a livello nazionale, europeo ed internazionale, impongono una riflessione costituzionale sulla legittimazione degli organi di rappresentanza.
La personalizzazione della politica, la crisi dei corpi intermedi ed il ruolo sempre più incisivo dei mercati economici per la formazione e la tenuta degli esecutivi hanno generato leadership incapaci di permanere nel tempo. La scelta tra una democrazia partecipativa e pluralista e una democrazia decidente e identitaria appare quindi inevitabile.
Citando una delle sue più recenti opere monografiche, «il costituzionalismo moderno può sopravvivere?» In cosa consiste oggi il valore irrinunciabile della democrazia parlamentare?
Il valore irrinunciabile è proprio quello indicato: garantire il pluralismo e la partecipazione. È nell’etimo del termine democrazia che è contenuta l’essenza del suo valore: nel rapporto tra popolo (demos) e potere (kratos) che si definisce la qualità e l’essenza delle democrazie.
Se riduciamo questo rapporto alla scelta di un capo una volta ogni tanto, il giorno delle elezioni, finiremo per dare ragione a Rousseau e alla sua pessimistica visione che indicava al popolo inglese la sua necessaria sottomissione il giorno dopo quello elettorale.
Il costituzionalismo moderno ha invece provato a stabilire che si è liberi tutti i giorni, ponendo il potere al servizio dei diritti fondamentali e assicurando le forme tramite cui tutti i cittadini possano concorrere per determinare la politica nazionale, ogni giorno e sotto ogni governo o qualsivoglia maggioranza politica. Certo è che se il popolo non va a votare o se si limita ad affidarsi ad un piccolo cesare o se sfiduciato guarda altrove, la democrazia diventa di cartapesta e il costituzionalismo moderno entra “in trance”.
Alessandro Fricano
Assegnista di Ricerca in Diritto costituzionale – Università di Palermo
Componente del Direttivo di Voci Costituzionali
